Intervista al fotografo di Sant'Agata Lorenzo Tugnoli che ha vinto il Pulitzer
Elena Nencini
Un aprile veramente ricco per il fotografo di Sant’Agata Lorenzo Tugnoli: lo avevamo sentito all’inizio di marzo per la sua candidatura al Word Press Photo con il servizio che documenta la fame nello Yemen devastato dalla guerra in corso da anni. Adesso Tugnoli ha sbancato vincendo, primo italiano nella storia, il Pulitzer con lo stesso servizio.
Tugnoli, due premi in un colpo solo.
«Il Washington Post - che a suo tempo mi ha commissionato il servizio – sta investendo molto sulla sezione fotografica. Questo riconoscimento è importante anche per loro per spingere la parte delle fotografie».
E’ il primo italiano che vince questo premio, un bel riconoscimento.
«Non lo sapevo, ma è una buona notizia. È un premio importante, anche perché è difficile parteciparvi, non si possono spedire le foto privatamente. È un premio che ha bisogno del supporto di una grossa istituzione mediatica come le grandi agenzie americane. C’è un processo di selezione dentro il Washington Post: infatti per ogni categoria si possono mandare solo tre partecipazioni. Anche solo il fatto che il giornale mandi le tue immagini al Pulitzer è una cosa importante perchè al Washington Post lavorano tanti grandi fotografi».
Allora tornerà in Yemen, dopo questi premi?
«Si è possibile. È un premio dato dalla Columbia University, non ho nessun rapporto con loro, ma tra un mesetto dovrò andare a New York a ritirare il premio. Credo che le scelte di Trump sulla vendita delle armi abbiano influenzato la politica americana e sensibilizzato nei confronti dello Yemen. É una questione politica tra Trump e i democratici».
Emozionato?
«Tanta felicità e non vedo l’ora di tornare a fotografare. Stamattina mi sono svegliato e ho trovato 400 mail. Mia mamma mi ha detto che devo comprare un biglietto della lotteria perché tanto vinco tutto».
Ma intanto avevamo sentito il giorno prima Tugnoli per la vittoria del Wordl Press Photo, altro importante premio internazionale del settore.
La vittoria è stata inaspettata ?
«In realtà il fatto molto inaspettato è stata la candidatura al premio come una delle storie dell’anno. Una volta successo ho capito che era possibile una vittoria finale, quindi non posso dire di essere stato colto totalmente di sorpresa. L’edizione di quest’anno ha premiato le storie dedicate all’immigrazione e a quanto sta accadendo sul confine tra Messico e Stati Uniti. Quindi c’è una chiara volontà della giuria di confrontarsi su questi temi».
Come è arrivato a raccontare la crisi in Yemen?
«Nel caso specifico, grazie al fatto che io lavorassi per il Washington Post in Yemen, mi sono trovato in una situazione particolare: sono stato due volte in Yemen e la seconda volta siamo arrivati dopo che il giornalista dissidente saudita del Washington Post, Jamal Ahmad Khashoggi, è stato ucciso all’interno del consolato saudita in Turchia. Ci siamo così sostanzialmente ritrovati in questa storia. Eravamo lì per una giornale molto contrario a quello che sta facendo Trump e all’appoggio al conflitto e ai bombardamenti con armi prodotte in America».
Cosa vuole raccontare con le sue foto?
«Il mio intento è raccontare delle storie attraverso il fotogiornalismo. Ho cominciato a fotografare a Bologna, attorno al 2001, poi il G8 a Genova, le manifestazioni. Non sono riuscito a fotografare a Genova perché ero troppo giovane. Con il tempo tutto questo è evoluto da una mera documentazione dei fatti per ricordare un evento, a realizzare delle immagini che fossero più interessati».
Lo Yemen le è entrato nel cuore?
«Si, certamente, proprio come l’Afghanistan. Questi due paesi sono molto simili, non tanto per la situazione politica, perchè i conflitti sono diversi, ma si assomigliano sul piano sociale, essendo paesi molto poveri, molto conservatori e religiosi. Quello che era fondamentale in Afghanistan era far capire quanto gli Stati Uniti fossero coinvolti e la stessa cosa si può dire per lo Yemen, anche se con meno truppe, ma le armi, le bombe e il supporto aereo sono forniti dagli Usa».
Pronto a partire di nuovo per lo Yemen?
«Da qualche mese sto cercando di tornare, ma ottenere il visto è molto complesso. La crisi è tutt’altro che finita, ci sono 10 milioni di persone sulla soglia della fame. Deve essere una storia che si continua a raccontare».