Terrorismo, il diario dell'assessore Bakkali: "Dobbiamo sconfiggere la paura"
È una sera accogliente a Parigi, è venerdì e decidiamo, Emilio ed io, di onorare un proposito che avevamo da giorni, cenare al ristorante «Le petit Cambodge» su Rue Bichat. Scendiamo alla fermata di Goncourt, passeggiamo, tranquilli, curiosi, felici. Le petit Cambodge è un ristorante bello, piccolo, come me lo aveva descritto Emilio, che lì era stato qualche anno fa. Entriamo, chiediamo un tavolo, non c’è posto, lasciamo il nostro numero di telefono e nel giro di mezz’ora, dice il titolare, ci chiamerà, non appena si sarà liberato il tavolo da due. Usciamo e, attraversata la strada, entriamo a Le Carillon, tipico bar francese ad angolo, tende rosse, piccoli tavolini sull’esterno del locale, qui decidiamo di aspettare la chiamata dal «cambogiano». Beviamo una birretta e ci guardiamo intorno, siamo circondati da ragazzi, come noi, dai venti ai trent’anni o poco più, voci e risate si mescolano, le lingue anche. Due sorsi, due parole e poi il rumore più assordante che avessi mai sentito. Vedo del fumo e subito dopo cominciano le mitragliate, continue, infinite, le persone iniziano a correre, è il caos più totale. Mi butto per terra, Emilio individua una rientranza nell’edificio e lì mi trascina a sé, io sono in ginocchio, lui in piedi sopra di me. Lo stringo forte, mentre salta tutto, mentre sento gli spari avvicinarsi. Ho gli occhi sbarrati, fissi su due ragazze a terra che anche loro, stese con le braccia piegate e le mani davanti a loro, fissano lo sguardo verso di noi. Mi sembrano vive, le ricordo vive. Vedo le pallottole entrare nel muro a sinistra del Cambogiano, le scintille. La paura è nel cuore che batte come non mi era mai successo, come non avevo mai provato. La testa invece è lucida e vigile. Mentre sentivo gli spari sempre più vicini a noi ho desiderato che la morte fosse indolore, cieca. Non volevo vedere nessuno morire. Non una parola, non un grido. Gli spari cessano, né noi, né i due ragazzi che si sono riparati con noi in quella rientranza si muovono. L’attesa dietro quell’angolo è anch’essa infinita, poi urla, pianti, si cercano gli amici che non si vedono, non si trovano e forse non li rivedranno più. Cominciamo a sporgerci, siamo sul marciapiede, ci viene incontro un uomo, poco più che quarantenne, parla in inglese, è solo, piange, lo abbraccio. Un lungo cammino per tornare a piedi verso l’appartamento, Parigi e le sue strade sembrano in differita l’una dall’altra, un’atmosfera surreale. Girando sulla strada del canale Saint Michel vediamo un bar affollato, giovani divertiti e nell’atto di seguire la partita, quella stessa partita che scopriremo poi essere stato luogo di un attacco. Una volta a casa accendiamo il televisore e ci rendiamo contro della portata degli eventi che stanno sconvolgendo Parigi. La nostra è stata una piccola storia, si contano e si piangono 129 vittime, quasi tutti giovani provenienti da 14 paesi oltre alla Francia: Algeria, Belgio, Gran Bretagna, Cile, Germania, Italia, Messico, Marocco, Portogallo, Romania, Spagna, Svezia, Tunisia, Usa. Anche il mondo dei social network parlava ai giovani venerdì: Facebook con il safety check, Air bnb chiede se c’è bisogno di ospitalità e offre a chi è già in un alloggio la possibilità di poter, in caso di soggiorno forzato, restare gratuitamente. Su Twitter con l’hashtag «Porte Ouverte» i parigini aprono le loro case a coloro che si trovano nelle strade e in difficoltà a fare rientro nelle proprie. Tanti i pensieri una volta tornati a casa, per nessuno di noi nulla potrà essere come prima ma soprattutto abbiamo provato la concreta mancanza di libertà. La determinazione di voler reagire alla violenza di quelle ore; la necessità di far prevalere sempre la vita sconfiggendo la paura ed il terrore; la convinzione che mai come ora bisogna usare le parole con delicatezza perché aggiungere paura dove già c’è panico significa sottrarre libertà. Insinuare sospetto verso l’altro, verso chi vive vicino a noi è uno stato di non libertà. Non dobbiamo cedere a questo becero inganno, non cediamo anche noi all’odio. Penso che le persone vadano guidate verso reazioni umane e tutti coloro che hanno una voce pubblica devono usarla con responsabilità. Se davvero l’obiettivo è difendere i valori europei, allora stiamo parlando di altro, ovvero di libertà di parola, di religione, di diritti umani inviolabili, di democrazia, di integrazione…di libertè, egalitè, fraternitè. Parliamo di libertà di vivere la propria banale quotidianità. Questi terroristi stanno minacciando questo patrimonio di valori e memoria storica. Si è parlato tanto di identità; ma cos’è l’identità europea? E’ quella delle singole nazioni che la compongono? Nei siti archeologici, nei monumenti possiamo osservare l’origine dell’Europa e quanto questa sia legata al bacino mediterraneo, all’Asia, al Medio Oriente. L’identità di un paese è complessa, la storia dell’Europa è complessa. L’identità di un paese, le sue tradizioni non sono un monolite, ma sono l’insieme di vicende umane e sociali e come tali evolvono. Anche l’Italia è in questa Europa complessa e plurale. Oggi essere italiani può voler dire tante cose, ha sempre voluto dire tante cose. Gli italiani sono cattolici, musulmani, ebrei, buddisti, atei; mangiano spaghetti, piadine, cous cous, polenta e kebab; gli italiani indossano la coppola, la kippà e il velo. Chi alimenta la paura del diverso alimenta, tra le tante cose, un futuro di marginalità per i giovani di seconda, terza generazione, cittadini italiani in maggioranza e che se isolati in sacche di disagio e rabbia possono diventare protagonisti di allarmi e tensioni sociali. Sono una giovane europea e siamo la generazione che sta vivendo il più alto tasso di disoccupazione dal Dopoguerra ad oggi e non vogliamo essere anche la generazione che vedrà ridursi le libertà personali, ed uno degli obiettivi deve essere quello di difendere l’equilibrio tra sicurezza e libertà. Siamo giovani europei che vogliono potersi muovere liberamente in Europa e nel mondo. Siamo giovani europei che vogliono avere pari diritti, opportunità ed aspettative di futuro a prescindere dal cognome che portiamo e a questo fine è fondamentale il lavoro di integrazione effettiva che deve partire dalle scuole, dalle istituzioni e dai territori. Siamo giovani europei che vogliono che il mondo non si immobilizzi davanti alla minaccia del terrorismo globale che ha colpito nelle ultime settimane tanti altri paesi: Turchia, Libano, Kenya; che non si identifichi il nemico sbagliato. Chiediamo una cooperazione internazionale che guardi a un futuro di più ampio respiro per questo mondo e non a operazioni di guerra dal dubbio esito come in Libia nel 2011. La mia è una piccola storia, quella invece che stiamo vivendo tutti ha una portata globale, da comprendere e guidare con lucidità e auspico che possa virare verso una speranza di umanità per tutti i popoli e non verso la paura e la guerra. Il mio pensiero a Valeria Solesin. *Ouidad Bakkali, assessore alla Cultura del Comune di Ravenna