RICORDO | Guido Pasi «rilegge» Luciano «Mostar» Lucci, padre nobile dell’«Alfosinità»

Romagna | 12 Marzo 2024 Blog Settesere
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Guido Pasi
Luciano Lucci, il soprannome di «e mostar», il mostro, se l’era guadagnato in giovane età grazie alle sue doti straordinarie di giocatore di «calcino» (in romagnolo anche detto frulò, anche se il gioco vero si fa al volo e senza frullate). Succede, nei casi fortunati, che i nostri soprannomi durino tutta la vita e corrispondano a noi meglio di quelli anagrafici. Questo è stato certamente il caso di Luciano.
«Mostar, perché a dit Alfonsine mon amour?». A me risultava che a noi Alfonsine aveva sempre dato calci negli stinchi. Noi, venendo dal ’68 eravamo approdati a il Manifesto, peggio di così cosa avremmo potuto fare? Eravamo in orbita su uno Sputnik chiamato Alfonsine!  Neanche un aereo di polistirolo con palloncini gonfiati a elio ci avevano lasciato decollare quando Andreotti parlò ad Alfonsine in piazza Gramsci nella data più sacra, il 10 Aprile, la liberazione E Andreotti era un tipo chiacchierato, a dir poco (chiedere a Leoluca Orlando).
Io non ho mai combinato niente nel paesello natio. Dovetti fare qualcosa a Ravenna e Bologna. Lui invece li prese «a stracca». Pur venendo dalla vicenda dell’occupazione di zoologia, dove lui e Prist (Rino Montanari) avevano abbattuto il portone per occupare, servendosi di non so cosa «a mo’ di ariete», come scrisse il Resto del Carlino, alla fine era diventato una sorta di padre nobile dell’Alfosinità. Non subito, certo. Prima c’era stata la fase in cui era denigrato perché era anticonformista, «io son ribelle nel vestire nel pensare e nell’amar la bimba mia» diceva con Celentano; poi c’era stata la Radio Mariposa, che non era certo una Radio sovversiva, ma era cattivella e non corrispondeva all’idea delle radio disc jokey. Ma lui era spinto da una molla inesauribile: la curiosità, a cui applicava il turbo della fantasia. L’immaginazione al potere. Il ’68, l’Africa, le utopie… entrarono tutte in un frullatore che aveva il suo fulcro ad Alfonsine. Cosa può esserci di più interessante di vivere nell’ombelico del mondo? Qui era caduto Fetonte col suo carro, che in realtà era un’astronave, ogni traccia era interessante e portava ad altre tracce, il nostro gruppo sanguigno tipico di una genia diversa, la nostra natura ribelle, fino alla Settimana Rossa, al fascismo, alla liberazione, al ’68, ai giovani delle panchine…
È vero comunque che Alfonsine mon amour si ispirava a Hiroshima mon amour dove non è stato precisamente bello esserci, questo me lo ha dovuto concedere.
Così, alla fine mi sono arreso, ho cominciato a frugare nello Zibaldone e a infilarci delle tracce: le nostre estati a Casalborsetti, Saint-Tropez? Je ne connais pas. Il suo viaggio alle sorgenti de Senio, non valeva forse quello alla ricerca delle fonti del Nilo? Neanche Garcia Marquez si sarebbe svegliato durante un viaggio in Grecia, con la 500 in panne, trovandola funzionante e ben rifornita di pomodori nel sedile posteriore. Realismo magico? Si può fare anche da noi. «Mai più senza borraccia» era un titolo bellissimo, mi pento di averlo fatto cambiare. Era il risultato di un difficile trekking in Sardegna e rendeva bene l’essenza di quella esperienza, anche se il libro parlava poi di Alfonsine, come al solito.
Con Alfonsine mon amour e Mostar aveva raccolto tutto in un contenitore universale di un genius loci che io dicevo non esistere. Ma forse ha sempre avuto ragione lui. C’è anche la galleria dei tipi strani, i «matti» del paese, a contrastare il conformismo che a me sembrava prevalente. Ci sono tante individualità sorprendenti, memorie storie, tante scartoffie da conservare. Questo è il punto: Alfonsine mon amour va salvato dalla rodente critica dei topi, dal macero che deve esserci anche nel metaverso. Il Comune gli deve una piazza, una strada, un cantò puchesseia, ma soprattutto la conservazione del sito. Una volta glielo dissi: hai voglia te, prima che nasca un altro che si innamora di Alfonsine, brutto com’è….
Si Alfonsine è brutto ma «bisogna perdonarlo» come il cielo grigio della canzone di Brel. L’hanno rimesso in piedi in fretta e invece «il mostro» lo ha ricostruito un po’ alla volta trovandone antiche vestigia e moderne eccellenze (quelle del piano Vaccaro). Lo ha fatto ammirare e anche invidiare. Roba che solo lui poteva fare. Una tela tessuta per gran parte della sua vita troppo precocemente strappata.
Sì, di Mostar ce n’è stato uno solo e il vuoto che lascia è più profondo di quello che deve aver fatto il carro di Fetonte quando rovinò al suolo (pare esattamente alla rotonda che mette la statale in comunicazione con la Rossetta). Come ho scritto sulla sua bara «at salut Mostar».
 
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