Stefano Savini pubblica l’album «Aliquid Novi» con un nuovo quintetto
«Spero che un titolo come “Aliquid Novi” sia d’auspicio per chiedere, come novità, un ritorno a quel “vecchio” che non apprezzavamo abbastanza prima della pandemia, alla semplice ma vitale bellezza del vedersi con gli amici, incontrarsi e riempire le platee. Nel 2021 la pandemia la sarà vecchia, quindi aliquid novi!». Il chitarrista lughese Stefano Savini ha scelto un nome latino per il suo nuovo progetto discografico, che significa letteralmente «qualcosa di nuovo» e vale come boccata d’aria fresca anche nel mondo delle prassi jazzistiche un po’ stantìe che Savini (nessuna parentela, nda) cerca di dribblare mettendo a frutto le sue tante passioni e un background che mette continuamente alla prova la sua formazione accademica sul banco di prova di un’idea di jazz personale e contaminata. La dicono lunga in questo senso sia l’apprezzamento di Paolo Fresu che le note del vulcanico Gian Ruggero Manzoni, che nelle partiture di Savini intravede «presenze, atmosfere, geografie, climi, anche lontani fra loro». Il quintetto vede la chitarra del leader supportata da una sezione ritmica e dal flauto di Davide Di Iorio insieme alla tromba di Giacomo Uncini. Un organico insolito, e graziato in alcuni brani dagli interventi vocali morriconiani di Sara Jane Ghiotti.
«Abbiamo registrato in febbraio, a Riccione - racconta Stefano Savini -, completando l’incisione un attimo prima del lockdown. L’album è appena uscito su etichetta Dodicilune e sugli store on-line di Ird».
C’è una grande densità di linguaggi fusi insieme e dei quali non è semplice risalire alle origini. Cosa ti ha ispirato?
«Davvero tante cose, io prendo sempre molto dal passato e se metà dei pezzi posso tranquillamente definirli “jazz”, ci sono anche altre direzioni. In particolare tanti Balcani, che nascono dall’altra parte della riviera ravennate, e tanta musica medievale, una suggestione che si respira camminando per Bologna e fa parte del mio bagaglio formativo accademico. Cerco sempre di ricreare nel presente, e con uno stile personale, le suggestioni del passato. L’invenzione stessa del jazz è un prodotto afroamericano, nato dall’incontro fra le tradizioni musicali africane, le canzoni francesi e le ballate irlandesi».
In un pezzo come Diesis ad esempio sento molto Brasile…
«I sudamericani sono bravissimi a fare quello che dicevo, cioè a caricarsi il passato sulle spalle, guardando però sempre al presente, senza zavorre e nostalgie. Nei pezzi acustici molte suggestioni scaturiscono dalla chitarra classica e poi le voci usate come strumento da Sara Jane Ghiotti evocano l’immaginario cinematografico di Morricone».
Ancora una volta utilizzi un organico poco standard. Come l’hai scelto?
«La maggiore particolarità è la commistione tra il flauto, che cerco di valorizzare da anni grazie anche all’amicizia con Davide Di Iorio, e la tromba. Sono due strumenti che viaggiano su registri acuti, ma il timbro è così diverso che l’amalgama finale non stride. L’abbiamo provato dal vivo già negli anni scorsi e tutti i musicisti hanno capito al volo che questo organico aveva un sound originale ed efficace. Di sicuro non cerchiamo di scimmiottare gli americani, mi piace pensare che “Aliquid Novi” contenga tanta Romagna».
Dpcm e concerti vanno poco d’accordo. Come farete a promuovere il disco?
«Mi sto organizzando per l’estate e ho già avuto riscontri di enti e festival interessati a questo progetto. Dal vivo suonerà il quintetto ma avremo anche Sara Jane Ghiotti, la cui voce è del tutto parificata a uno strumento musicale». (f.sav.)