Scrivere di sé. Nessuno in narrativa è se stesso, al massimo ci assomiglia un po’...

Romagna | 07 Dicembre 2021 Dumas
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La prima lezione di Cristiano Cavina, pubblicata su settesere n. 42 del 19 novembre
 
Cristiano Cavina
 
SCRIVERE È SEMPRE UNA FINZIONE
Prendiamo la forma più assoluta dello scrivere di sé: il diario. Il resoconto quotidiano dei propri casi e delle proprie impressioni; cosa può esserci di finto?
Beh, per esempio può esserci che tutti i gesti della vostra giornata non ci stanno in una pagina; e nemmeno nelle 365 di un’agenda; vi ci vorrebbero volumi per elencare fedelmente ogni cosa. Cosa si fa? Si taglia il superfluo, o almeno quello che non ci interessa dire: ma questo è già un gesto creativo; prima finzione.
Quando poi si tratta di scrivere cosa abbiamo provato – abbiamo litigato con la morosa, abbiamo menato il capo ufficio - lì non c’è altro modo che ricreare e venire a patti con le parole, perché i sentimenti sono indicibili e i termini che la lingua ci mette a disposizione per nominarli sono praticamente gusci vuoti; amore, dolore, dolcezza, emozione: non vogliono dire nulla e non sono che la pallida ombra di quello che possiamo provare. E così, per rendere l’idea ci tocca inventare metafore o similitudini che si avvicinino al nocciolo della questione; metafore e similitudini che sul momento non ci erano neanche passate per l’anticamera del cervello (perché eravamo troppo impegnati a picchiare il capo ufficio... o a vivere) Quindi, scrivere di sé è una finzione.
Il che ha almeno un aspetto positivo: non dobbiamo essere fissati con la verità dei fatti. In narrativa, nelle storie, quando si raccontano o si scrivono, i fatti sono solo quello che ci serve per rendere bene l’idea di ciò che vogliamo dire; nel libro sulla vostra famiglia vostro cugino può essere biondo, alto due metri e con un padre bulgaro invece che moro, basso e di Granarolo Faentino; quello che conta è che sia perfetto per rendere l’idea della vostra vita.
Per assurdo, ogni testo narrativo (o letterario, se l’ha scritto qualcuno davvero bravo) rientra nella categoria ‘scrivere di sé’, a intensità diverse. Ci sono i generi diretti; si può prendere ispirazione dalla propria memoria, dalla vita di chi conosciamo - e allora potremmo scrivere un’autobiografia o una saga familiare - ma si può scrivere di perfetti sconosciuti mettendosi dentro al racconto: biografia romanzata.
Poi ci sono i generi indiretti: scrivere delle proprie passioni o dei propri interessi. Le storie di Maigret scritte da Simenon (rigorosamente a matita, due all’anno), in gran parte non hanno nulla di realmente accaduto, ma basta leggere Pedigree, la sua autobiografia, per ritrovare nelle atmosfere della Parigi e della Francia del celebre ispettore le stesse atmosfere che l’autore ha vissuto nella sua esistenza. Atmosfere.
Non è un caso poi che Simenon partisse proprio da quelle; non era tanto importante per lui chi fosse l’assassino o il suo movente, quanto rendere con efficacia uno spicchio di mondo, che poteva essere il jet set della costa azzurra o gli ultimi borghi marinari della Normandia.
Cent’anni di Solitudine di Garcia Marquez non è un romanzo autobiografico, però è evidente che Macondo fosse la riproposizione letteraria di Aracataca, il paese caraibico in cui lui era cresciuto da ragazzino; e il colonnello Buendia assomigliava terribilmente a suo nonno, così come le veggenti di tutti i suoi romanzi ricordano le donne della sua famiglia e che avevano fama di sicure veggenti e lettrici di sogni, come scrive nel libro e come racconta - con le stesse parole, in una intervista)
 
COME SI SCRIVE DI SE?
Senza girarci tanto attorno, la prima cosa da fare è non riportare aneddoti della propria vita. Molti dei testi auto-pubblicati che trovate nelle librerie fanno proprio questo: raccontano episodi.
Ed è probabilmente il motivo per cui nessun editore, se non quelli a pagamento, li pubblica: a nessuno interessano o interesseranno gli aneddoti della vostra vita. Non perché non valgano niente, ma perché non c’è niente nella vostra vita che altri non abbiano già vissuto: raccontarli così, non funziona. È come invitare gli amici a guardare le diapositive delle vostre ferie; a nessuno frega niente delle foto delle vostre ferie; a fatica guardano le foto delle loro, figurarsi le vostre. Oppure è come far vedere a tutti le foto dei propri figli; non fatelo: a nessuno frega niente delle foto dei vostri figli!
Questo non vuol dire che non potete raccontare gli aneddoti della vostra vita: dovete, ma l’interesse non deve essere per cosa è successo o cosa avete fatto, ma del modo in cui lo raccontate; dalla voce e dal ritmo che userete. In potenza, tutte le storie sono banali e tutte le storie sono speciali; è lo stile con cui le mettiamo su carta che fa la differenza. La seconda cosa da fare, è rendersi conto che non si sta scrivendo davvero di sé ma al massimo di qualcuno che ci assomiglia molto, ma che non siamo esattamente noi.
Ci illudiamo di sapere tutto della nostra vita; in realtà non è così. La memoria è una membrana instabile, assimila e rilascia ricordi a seconda di come ci sentiamo e di come cambia il nostro carattere; cose che ci sembravano fondamentali scopriamo che non lo sono più, minuscoli particolari a cui non abbiamo fatto caso con il tempo si rivelano fondamentali; senza contare che per buona parte non ci ricordiamo nulla per davvero, ma abbiamo modificato i fatti a seconda di quanto ci faceva comodo in un dato momento.
Prendete il vostro aneddoto e metteteci una stortura o un punto di vista particolare (per questo l’esercizio della settimana scorsa vi faceva incontrare un personaggio improbabile nella cucina di casa vostra).  Rendetevi conto che non siete voi per davvero, ma una versione di voi; un personaggio con una sua vita che non è esattamente la vostra
 
IL «BELLO SCRIVERE»
Terza cosa, non sentitevi in dovere di usare ‘belle parole’ solo perché state scrivendo. Quando ci si siede a pigiare tasti o a lavorare di carta e penna si ritorna schiavi della prima media: mettere il sinonimo di lusso poteva far colpo sulla prof e magari si strappava un sette più. Va benissimo a scuola, lì si insegnano i fondamentali; ma nella narrativa questo non funziona. Scrivere non è infiocchettare e inanellare parole eleganti, magari anche poco usate. Mi capita spesso di leggere manoscritti in cui si parla di una serata alle Cupole e i personaggi sono accostati a termini come ‘giungemmo’; alle cupole non si giunge, ci si va: a meno che la voce che state usando per raccontare non renda plausibile il giunge: per esempio, esagerare l’effetto comico.
Altri provano a raccontare la vita del nonno contadino analfabeta e usano ‘travisò’ tra le parole. È corretto in italiano, ma travisare fa a pugni con un personaggio del genere; un contadino analfabeta - e magari romagnolo - non ‘travisa’; ‘un capes un caz’, al massimo.
 
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