Ravenna, le sentenze attese nel 2020, dall'appello Ballardini alla Cassazione per Cagnoni e Poggiali

Romagna | 07 Gennaio 2020 Cronaca
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Sono diversi i procedimenti che hanno segnato la cronaca giudiziaria ravennate del 2019, primo fra tutti quello che ha visto i 4 «amici» di Matteo Ballardini venir condannati in primo grado, lo scorso 2 luglio, a pene tra i 15 e i 9 anni, nettamente inferiori a quanto richiesto dall’accusa. Il giovane 19enne lughese venne lasciato morire di overdose in auto la notte del 12 aprile di due anni fa dagli amici che avevano passato la serata con lui e che scelsero di non allertare i soccorsi e, quindi, salvargli la vita per non avere problemi avendo assunto droghe ed alcol. Nel 2020 si attendono sentenze importanti e si tornerà a parlare sia di volti noti che di comuni cittadini finiti alla sbarra anche per delitti efferati.

L’APPELLO CONFERMA L’ERGASTOLO PER CAGNONI
Gabriele Bordoni, legale di Matteo Cagnoni ha depositato il ricorso in Cassazione per cercare di fare assolvere il suo assistito e l’udienza potrebbe venir fissata prima dell’estate. Lo scorso 26 settembre, infatti, l’Appello ha confermato la condanna all’ergastolo rimediata in primo grado il 22 giugno 2018 dal dermatologo ravennate 54enne, accusato di aver brutalmente massacrato la moglie Giulia Ballestri in una villa disabitata di famiglia il 16 settembre 2016. Il sostituto procuratore generale Gianluca Chiapponi aveva chiesto alla corte d’Appello la conferma dell’ergastolo sottolineando come le prove schiaccianti a carico di Cagnoni fossero davvero molte: dai cuscini sporchi del sangue di Giulia portati dalla villa disabitata in cui la donna venne uccise a bastonate a Ravenna, alla villa dei genitori dell’imputato a Firenze, alla scheggia del bastone, arma del delitto, ritrovata in una tasca dei suoi jeans fino alle impronte palmari rinvenute nel sangue di Giulia nello scantinato della villa di via Padre Genocchi. Chiapponi aveva sottolineato, infine, come Cagnoni avesse sì il vizio di mente «denunciato» dalla difesa, ma non psichiatrico, piuttosto culturale: non poteva accettare che la moglie si fosse stancata di lui, che avesse un nuovo compagno. Un delitto d’onore, il suo che, come ha sottolineato il pm, «nonostante sia stato abolito nel codice penale, in certe mentalità, è rimasto».

L’EX INFERMIERA POGGIALI È INNOCENTE?
Il prossimo anno tornerà a far parlare di sé anche Daniela Poggiali, l’ex infermiera dell’Umberto I di Lugo, accusata di aver ucciso la paziente Rosa Calderoni l’8 aprile 2014 con un’iniezione letale di potassio. In settembre, infatti, la Cassazione dovrà pronunciarsi sulla richiesta della Procura generale di annullare l’assoluzione della Poggiali, condannata all’ergastolo in primo grado nel marzo 2016, assolta in appello a luglio 2017, assoluzione annullata dalla Cassazione esattamente un anno dopo che ha disposto un Appello bis. Quest’ultimo, nel maggio di quest’anno, ha assolto nuovamente l’ex infermiera «perché il fatto non sussiste». L’imputata è stata anche assolta dall’accusa di peculato, per aver sottratto le due fiale di potassio usate per uccidere, «per non aver commesso il fatto». Un’assoluzione piena cui si è aggiunta la richiesta della Corte che ha trasmesso gli atti alle procure di Ravenna e Bologna per falsa testimonianza per i testi e i consulenti sentiti durante le udienze dell’appello bis. La Corte ha ipotizzato, infatti, anche i reati di calunnia e simulazione di reato per quanto accaduto quando, nel 2014, vennero raccolti ed analizzati i reperti della Calderoni, flebo, agocanula e che riportavano tracce di potassio elevati. Ovviamente, in attesa che la Cassazione si pronunci a settembre, sono stati aggiornati anche gli altri due procedimenti legati alla Poggiali: rinviata ai primi di marzo l’udienza del processo per ex primario ed ex caposala della Poggiali, Giuseppe Re e Cinzia Castellani, finiti alla sbarra per omicidio volontario con dolo eventuale di Rosa Calderoni per non aver vigilato sull’operato dell’ex infermiera. Posticipata, invece, a febbraio, la prima udienza del processo che sarebbe dovuto iniziare lo scorso 10 settembre e che vede la Poggiali accusata dell’omicidio di un altro paziente, il 95enne, Massimo Montanari, ex datore di lavoro del compagno dell’infermiera, morto il 12 marzo 2014. Un altro decesso catalogato come «sospetto» visto che l’uomo doveva essere dimesso il giorno successivo.

«BALLA», MORTO PER GARANTIRE L’IMPUNITÀ DEGLI AMICI
Così come per Cagnoni, è verosimile che ricorrano in Appello anche i legali dei 4 «amici» di Matteo «Balla» Ballardini, condannati, lo scorso 2 luglio, per omicidio volontario in concorso con dolo eventuale per aver lasciato il 19enne lughese morire in overdose in auto la notte del 12 aprile 2017. Il giudice Janos Barlotti ha condannato a 15 anni e 4 mesi la 22enne Beatrice Marani, la «leader» del gruppo che passò la dose letale a Matteo, a 14 anni e 20 giorni il 28enne Leonardo Morara, a 9 anni e 4 mesi e 20 giorni il 22enne Simone Giovanni Palombo e a 9 anni e 5 mesi il 25enne Ayoub Kobabi. Il pm Marilù Gattelli, aveva chiesto 30 anni per la Marani e Morara mentre per Palombo e Kobabi 16 anni e 5 mesi per ciascuno. La notte in cui Matteo andò in overdose i ragazzi scelsero di comune accordo di non allertare i soccorsi, sostanzialmente per evitare guai alla Marani per quel metadone che lei stessa, secondo alcune testimonianze, si vantava di possedere in quantitativi industriali e che, la sera della sua morte, Balla le aveva chiesto, in un messaggio sul cellulare: «guarda, se avessi metadone o Xanas, ti darei la vita». Accettarono, quindi, non solo il rischio che Matteo morisse, ma contribuirono a quel decesso, spegnendogli il telefono e chiudendolo a chiave nell’auto lasciata nel parcheggio defilato in via San Giorgio a Madonna delle Stuoie. La Marani è attualmente in comunità, Morara ai domiciliari mentre Palombo e Kobabi sono liberi.

OMICIDIO DESIANTE: 23 ANNI AL SUO ASSASSINO
Per l’omicidio del 43enne Rocco Desiante, avvenuto il 3 ottobre di un anno fa, lo scorso 2 dicembre è stato condannato a 23 anni il 20enne rumeno Costantin Madalin Palade. Il procuratore capo Alessandro Mancini aveva chiesto l’ergastolo con l’aggravante della crudeltà, per la brutalità dell’assassinio. Desiante, infatti, venne trovato in un lago di sangue nell’appartamento in cui venne massacrato di botte con fratture multiple al cranio. Carlo Benini, legale di Palade ha già annunciato che ricorrerà in appello e la prima udienza verrà fissata il prossimo anno. Le indagini dei carabinieri, scattate dopo il ritrovamento del cadavere di Desiante e coordinate dalla Procura, hanno presto chiuso il cerchio attorno a quel giovane rumeno, piccolo spacciatore della zona che riforniva la vittima e che era stato con lui ed altri amici la sera del delitto. Le chat con Desiante cancellate, i vestiti che Palade indossava la sera dell’omicidio e mai ritrovati, le impronte di scarpe trovate nel sangue e compatibili con le sue, sono solo alcuni degli indizi gravi e concordanti che hanno portato alla incriminazione del 20enne che si è sempre processato innocente. L’imputato non ha avuto alcuna reazione alla lettura della sentenza che, invece, ha fatto scoppiare in pianto i parenti della vittima e la madre di Palade, convinta della sua innocenza.
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