Ravenna, Lanfranco «Moder» Vicari tiene il primo corso in «Modalità di scrittura nel rap» al Dams di Bologna

Romagna | 17 Aprile 2021 Cultura
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Federico Savini
«Credo che tangenzialmente e in modo sporadico l’hip-hop avesse già fatto capolino in qualche lezione universitaria in Italia. Ma per quanto ne so, una branca di un Master dedicata specificamente alla scrittura del rap è una novità per il nostro mondo accademico». Rischia seriamente di aprire una breccia «storica» nell’università italiana Lanfranco «Moder» Vicari, rapper ravennate che all’inizio del 2021 - con le inevitabili modalità dell’on-line – ha cominciato ad insegnare appunto «Modalità di scrittura nel rap» per il Dams di Bologna, all’interno del Master in Produzione e Promozione della Musica, coordinato da Anna Scalfaro e Pierfrancesco Pacoda, e che prevede insieme a vari corsi dedicati a marketing digitale, ufficio stampa, nuovi media e gestione di una carriera artistica, anche un approfondimento sulla scrittura musicale, con Moder ad affiancare in parallelo Emidio Clementi dei Massimo Volume. Il Dams si dimostra così ancora una volta un’istituzione all’avanguardia. «Io lo frequentai da studente, fra il 2003 e il 2004 - racconta il neo-docente Moder - e l’impressione che ne ricavai fu che sul versante musicale tutto fosse molto istituzionale, legato alla classica e con qualche pillola di Tom Waits come massimo della contemporaneità. Il cinema e soprattutto il teatro erano invece già a quel tempo proiettati sul presente».
Come sei diventato docente?
«Grazie a Pierfrancesco Pacoda, che insegna in questo Master e ha scritto, negli anni ’90, il primo libro italiano dedicato al rap delle Posse. Lo conosco da anni, ha saputo dei miei laboratori, coinvolgendomi poi in un suo progetto bolognese. Dopo il quale mi ha contattato per il Master».
Quant’è diverso rispetto ai laboratori che fai al Cisim?
«Quelli sono molto pratici e seguo i ragazzi passo dopo passo, in modo empirico, valutando crescita, percorso e difficoltà. Anche al Dams mi piacerebbe chiudere il ciclo delle lezioni scrivendo con gli studenti un pezzo rap. Di base questo corso ha un altro approccio: è più storico e sistematico, mette in fila una serie di fatti e ragionamenti che raccontano come sia cambiato negli anni il modo di scrivere le canzoni rap».
In che modo insegni l’evoluzione del rap?
«Anzitutto non esiste, in Italia, una letteratura di riferimento sul rap accettata in ambito accademico, nonostante non manchino i testi importanti, come quelli di Hyst e Damir Ivic, ma anche dello stesso Pacoda. In America, per intenderci, un rapper come Talib Kweli occupa un’autentica cattedra universitaria sulla storia del rap, mentre i veri guru italiani del settore, come Next One e Ice One, sono ancora percepiti come personaggi di nicchia ma si tratta delle eminenze vere del rap in Italia. Nelle lezioni parto dalla costruzione di un linguaggio comune e racconto le origini del rap nella storia evolutiva della musica; in particolare nella pratica antica dello “spoken word” e in quella del “groove”, elementi che il rap ha focalizzato in modo parossistico, attribuendogli una centralità inedita. Analizzo poi quei rapper che hanno segnato delle cesure stilistiche fondamentali, dai primordi di Grandmaster Caz e Rakim fino all’evoluzione virtuosistica probabilmente insuperabile di Eminem, al quale però segue 50 Cent, un ‘gangsta’ vero che si riappropria di una melodiosità che pareva aliena al genere, fino ad autori contemporanei come Anderson Paak e Lil Peep, che hanno riannodato i fili con il rock».
Questo serve agli studenti per padroneggiare i fondamenti del genere più praticato nella musica pop di oggi e riconoscere, quindi, il valore? Che domande ti fanno a lezione?
«L’utilità del corso è quella che dici. Se vuoi lavorare nella musica oggi devi per forza conoscere il rap, sul quale però prevalgono sempre gli approcci superficiali, anche per via delle lacune sulla letteratura di riferimento che dicevo prima. I miei corsisti hanno tra i 20 e i 30 anni, sono ascoltatori di rap e fanno tante domande sulla trap, per la quale il problema dello scarso approfondimento storico-musicale è macroscopico, quindi prevalgono gli elementi sensazionalistici. Vedo che far conoscere agli studenti approcci più sperimentali alla costruzione dei testi, tipici del cosiddetto ‘lyrical rap’, li incuriosisce molto».
L’ingresso del rap all’Università è più il riconoscimento di un ruolo culturale o la prima tappa di una fase nuova per questa musica?
«Spero soprattutto nella seconda cose. Anche se adesso c’è il mio corso questo non significa che il rap non abbia detrattori in ambito accademico. Io mi limito a dire che dal 2016 il dibattito sulla musica giovanile in Italia è quasi polarizzato su rap e trap. Il mio corso è basato molto sulla scrittura e la tecnica, anche per fare piazza pulita di travisamenti storici, come il fatto che il rap sia legato indissolubilmente ai ghetti delle metropoli americane. È un linguaggio, uno stile musicale che ha attecchito ovunque, in ogni cultura in cui è approdato. La cosa bella è che lo ha fatto in modo peculiare ovunque. In Italia, per esempio, ha avuto la sua parte nel consolidare il fenomeno dell’It-pop, che nasce come cantautorato ma flirta molto con lo stile del rap e i suoi produttori, vedi Coez o Franco126. Con il successo anche internazionale di Sfera Ebbasta e Marracash che a 40 anni va primo in classifica con un concept album come “Persona”, credo si sia toccato l’apice del successo».
Ma il rap andrà avanti. Semmai è diventato più difficile distinguerlo dal pop…
«Sì, ma è un problema relativo. In passato, attraverso il campionamento, il rap “cannibalizzava” gli altri stili, trasformandoli appunto in rap. Adesso, invece, è come se il rap si facesse attraversare dagli altri generi. È vero che è meno riconoscibile rispetto alla schiettezza dei primordi, ma faccio mia l’idea di un pioniere come Dj Kool Herc, che faceva rap quando ancora non si chiamava così e per lui è sempre stato un fatto di attitudine. Drake e Lil Druk sono molto melodici, ma non c’è dubbio che siano rapper, così come Sfera Ebbasta e Madame, che flirtano con la pop-music ma restano dei rapper in modo riconoscibile. Come dicevo, il rap ha attecchito ovunque e in modo sempre diverso rispetto al modello statunitense; ha proprio concorso a modificare il linguaggio per raccontare la realtà, tipicamente quella giovanile. E credo che in Italia lo abbia fatto, proprio in questi anni, in modo più efficace del rock».
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