Ravenna, Franck Viderot: "Mi ha salvato un djembe"

Romagna | 06 Novembre 2020 Mappamondo
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Silvia Manzani
«Le percussioni sono le mie radici, quando sono arrivato a Ravenna nel 2007 e non c’era nessuno del mio Paese, ho cercato un punto di riferimento nei tamburi della mia infanzia. Ho trovato solo un djembe. Ma mi ha salvato». Franck Viderot, 38 anni, originario del Benin e giunto in Italia come richiedente asilo perché, come attivista studentesco e giornalista, era finito nel mirino del Governo, sta per uscire con il suo quarto disco, il secondo da solista. Si intitolerà «Nerodiverso» e sarà quasi per intero in italiano: «Nei titoli dei pezzi ci sono le parole “esilio”, “rifugiato”, “nero”. Parlo della dualità che sento dentro, del mio accettarmi come italiano a volte e come africano altre, delle due comunità che cercano la mia appartenenza». L’ispirazione per scrivere e suonare di nuovo, Viderot, l’ha avuta alla fine dello scorso anno, quando è tornato dall’Africa: «Da quel momento, ogni mese ho pubblicato su Soundcloud le mie canzoni con il nome d’arte Wodevi, che nel mio dialetto significa “eredità degli antenati” e che era come mi chiamavano in Benin negli ambienti sacri legati al voodoo». Del resto è proprio alla religione principale della sua terra che Viderot deve la passione per le percussioni: «All’età di cinque anni ho iniziato a suonare, durante le cerimonie, il gankuekue, che corrisponde al gong. Allora mi sembrava noioso, avevo l’impressione che nessuno mi considerasse. Poi, con il tempo, ho capito che era importantissimo perché, come un metronomo, dava il tempo. Se rallentavo o velocizzavo troppo mio zio, che suonava il tamburo principale, l’houngan, al quale anche io sono arrivato dopo 15 anni, mi dava dei colpi sulle spalle che mi facevano uscire da quei riti pieno di lividi. Era un modo per farmi riprendere il tempo giusto. In fondo erano momenti sacri, non si poteva scherzare». Solo in Italia Viderot, che scopre di non sapere né leggere né scrivere una partitura musicale per quanto possa suonare diversi strumenti, si mette a fare ricerca: «Da un lato mi sono appassionato all’elettronica e ai sintetizzatori, dall’altra ho iniziato a condurre laboratori di percussioni nelle scuole, facendo una lunga esperienza anche alla primaria “Torre” di Ravenna. E lì, portando i bambini a suonare senza che quasi se ne rendessero conto, ho capito che non è vero che i neri hanno il ritmo del sangue. Il ritmo nel sangue lo abbiamo tutti, se ci educano fin da piccoli in questo senso». A sua figlia Ambra, sette anni, che più del fratellino Yan Marcel, due anni di meno, è interessata alle percussioni, Viderot propone spesso tamburi che in Benin sarebbero negati alle donne: «Nelle cerimonie voodoo ci sono regole e gerarchie particolari, stravolte rispetto alla realtà. Basti pensare che mia cugina, che secondo le interpretazioni legate alla reincarnazione è considerata una sorta di sacerdotessa, nelle cerimonie viene chiamata “madre” da suo padre. A Ravenna, poco dopo essere arrivato, sono riuscito a riprodurre e tornare ad ascoltare, grazie alla loop station che mi permetteva di sovrapporre i pezzi suonati sempre da me ma con tamburi ogni volta modificati, la mia tradizione. La tecnologia, insomma, mi ha molto aiutato». Lontano dalla teoria, Viderot ha sempre avuto un approccio pratico anche quando è entrato nelle classi a portare il suo messaggio anti-razzista: «Per parlare ai più piccoli la mia via maestra è la musica. Sono solito fare ascoltare ai bambini, come primo approccio, una canzone mononota e poi una melodia polifonica pentatonica, notando come preferiscano sempre la seconda. La bellezza della seconda canzone, capiscono alla fine, sta nella diversità. Insegnare loro le percussioni è il mio modo per trasmettere quello che ho da dire». Sposato con una donna polacca, Viderot lavora come educatore per una cooperativa locale. Nella cantina di casa, invece, si barcamena tra microfoni e mixer: «Sono un autodidatta e mi occupo di tutte le parti che servono per arrivare al brano finito. In Benin avrei voluto studiare al Conservatorio, peccato che non esistesse. La mia famiglia insisteva perché prendessi almeno una laurea. E così mi iscrissi a giornalismo. Quando, costretto dagli eventi, sono arrivato in Italia, ho trovato nella mia musica la mia valvola di sfogo e, ancora una volta, il mio canale di espressione». 
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