Palazzuolo, trovate in Appenino due vertebre fossi di circa 14 milioni di anni, probabilmente di grandi delfini

Romagna | 28 Gennaio 2023 Cronaca
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Sandro Bassi - Antefatto: nel novembre 2008 un palazzolese, Gianfranco Menghetti, rinvenne nel fosso di Visano, poco a monte del paese, una pietra grossa (quasi 10 kg!) che lo incuriosì per l’inusuale forma cilindrica e la superficie diversa da quella dei normali ciottoli di arenaria. Depositato presso il locale Museo civico, il reperto venne dimenticato ma «riscoperto» lo scorso anno dal curatore Alfredo Menghetti che ha avvertito il faentino Marco Sami, paleontologo del Museo di Scienze Naturali «Malmerendi». 
Fatto: Sami ha rimosso tutto l’involucro calcareo superficiale che inglobava quelle che si sono rivelate due grosse vertebre fossili – una completa, l’altra lacunosa - di cetaceo: una balena quindi, o più probabilmente un delfino o un’orca risalente a 12-14 milioni di anni fa. La datazione è quella delle arenarie dei dintorni di Palazzuolo, arenarie derivanti dalle sabbie che del mare di allora costituivano il fondale e che sono state anche, per così dire, la tomba del nostro cetaceo. 
Marco Sami ha naturalmente effettuato un sopralluogo sul luogo di ritrovamento ma si tratta del greto di un torrente in cui le due vertebre, più o meno incastrate fra loro, sono arrivate dopo un caotico dilavamento; in altre parole sono state «fluitate». 
Il ritrovamento presenta però caratteri di assoluta eccezionalità, per non dire unicità, con le precisazioni che lo stesso Sami ci ha gentilmente rilasciato.
Sami, come si presentava questo reperto?
«Come uno strano nodulo calcareo. Calcareo perché a seguito di processi chimici si era creata una sorta di concrezione, un po’ come avviene per le stalattiti di grotta; il rivestimento calcareo inglobava le vertebre quasi completamente, lasciando solo intravvedere, in qualche punto, il tessuto osseo, vagamente riconoscibile per l’aspetto ‘spugnoso’».
Ma il resto dell’animale dove si dovrebbe trovare?
«Ah, bella domanda! Potrebbe esser stato distrutto da eventi naturali oppure potrebbe essersi conservato, ma ovviamente non sappiamo dove, perché le due vertebre sono state disarticolate dallo scheletro e trascinate dalle acque».
Ci sono altri casi analoghi noti? 
«Per la Marnoso-arenacea, cioè per la ‘nostra’ formazione geologica appenninica, è un reperto rarissimo; a livello regionale sono noti alcuni ritrovamenti fossili di balene per le colline piacentine, ma su argille di 3-4 milioni di anni fa, quindi molto più giovani del nostro reperto che ha invece 10 milioni di anni in più. Che io sappia, c’è un solo caso forse analogo al nostro ed è quello di Santa Sofia, ove nel 1995 furono trovati alcuni resti di cui rimangono i calchi in gesso esposti al Centro Visite del Parco Foreste Casentinesi mentre gli originali, incredibilmente, risultano dispersi».
E questo reperto dove andrà?
«Al Museo civico di Palazzuolo, oggi Museo Archeologico Alto Mugello, che ne è custode e che lo esporrà. Si tratta di un bellissimo istituto, prevalentemente archeologico, ma nulla vieta che esponga anche materiale paleontologico. La proprietà giuridica, come per tutti i fossili, è dello Stato, che delega la conservazione ai musei pubblici, come appunto quello di Palazzuolo che è comunale. Qui da noi il reperto è stato solo in deposito per il restauro».
A proposito, il restauro quanto tempo ha richiesto?
«40 ore di martello e scalpello, più 30 circa di finitura con il mini-percussore ad aria compressa».
Infine, è identificabile la specie di cetaceo?
«Con esattezza no. Ho mandato le foto al massimo esperto italiano, che ritiene si tratti probabilmente di un odontoceto, cioè un cetaceo ‘con i denti’, come gli attuali delfini e orche, e non un misticeto, che è invece il cetaceo con i fanoni (grandi filtri ‘a pettine’) come appunto balene o balenottere. Si trattava comunque di un esemplare adulto e lungo circa 3 metri e mezzo».
E a Faenza non rimarrà nulla se non le fotografie?
«Probabilmente, grazie alla ‘sponsorizzazione’dell’Università di Firenze, faremo una scansione e poi un calco con la stampante in 3D che ci restituirà un oggetto in resina del tutto simile all’originale ed esponibile presso il nostro Malmerendi». 
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