Lorenzo Tugnoli e il secondo World Press Photo: «Il virus non è la guerra, non sai da dove sparerà»

Romagna | 26 Aprile 2020 Cultura
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Federico Savini
«Fermo restando che la guerra e il virus sono cose molto diverse, non c’è dubbio che in questo momento i reporter italiani che documentano l’emergenza sanitaria in un paese tra i più colpiti siano fra i più ammirati al mondo». Non è uno che si monti la testa Lorenzo Tugnoli, fotografo quarantenne di origine romagnola (è cresciuto a Sant’Agata sul Santerno) che anche nel momento in cui porta a casa il secondo World Press Photo consecutivo (e l’anno scorso, già che c’era, col suo lavoro sullo Yemen ha vinto anche il Pulitzer) mantiene la lucidità e la sana abitudine di pensare ai colleghi, stimandone il lavoro che - nel caso di un reporter di guerra come lui - è sempre più che mai «sul campo», oltre che sul pezzo. Questa volta, ad essere premiato con l’importante riconoscimento fotografi-co internazionale, è stato il lavoro che Tugnoli ha sviluppato l’anno scorso in Afghanistan, The Longest War.
«Il primo premio nella categoria “Contemporary Issues Stories” - spiega Tugnoli - è andato a dieci foto che ho scattato l’anno scorso in Afghanistan. Mi ci sono recato in due distinti periodi, per un mese ogni volta».
Come spiegheresti l’importanza di quelle fotografie?
«Durante quei due viaggi in Afghanistan ho documentato i diversi fronti del conflitto. La prima volta sono andato da solo e ho fotografato la vita dei rifugiati dell’interno di quel territorio, le persone che scappano dalla campagna, dove infuria la guerra, verso i dintorni di Kabul, dove anch’io ho abitato per un po’. Il secondo servizio è forse anche più importante, se non altro perché quasi unico nel suo genere. Ero sta-to inviato sul posto dal Washington Post, un grande giornale che proprio grazie alla sua importanza mi ha permesso mi documentare i due fronti. Anzitutto quello dell’esercito afgano che combatte i talebani. Poi, però, ho passato una giornata dietro le linee dei talebani. Ovviamente è difficilissimo avere la possibilità di accedere a quei luoghi e questo è stato possibile per una combinazione di fattori. Da una parte c’era, come detto, l’importanza indiscutibile di un giornale come il Washington Post, ma dall’altra mi è stato concesso di documentare il fronte dei talebani perché in quel momento era in corso una negoziazione fra loro e il governo americano, che preludeva al cessate il fuoco che poi c’è stato fra le due milizie. I talebani, insomma, avevano un interesse concreto a veicolare un’immagine relativamente nuova di sé stessi e a “parlare” con l’Occidente, attraverso quel servizio. E’ però importante sottolineare che, da quelle parti, la guerra non è affatto finita, perché se è vero che gli americani non spara-no più ai talebani, danno comunque supporto all’esercito afgano che lotta ancora contro i terroristi».
E’ significativo che sia stato premiato un servizio fotografico sull’Afghanistan, teatro di una guerra che come dici non è affatto chiusa ma di cui si parla molto meno che in passato. E molto meno di altri conflitti…
«Le notizie sono sempre molte e i giornali hanno anche limiti di spazio per ospitarle e approfondirle tutte, però senz’altro è vero che l’interesse per la situazione dell’Afghanistan è andato scemando dopo il 2015. Gli eserciti occidentali sono comunque lì, a supporto delle truppe afgane. Il processo di pace è andato compiendosi circa 18 mesi fa ma, di fatto, questo ha comportato un aumento dei combattimenti. E’ stato un po’ il collo di bottiglia di una lunga crisi, e come spesso accade in guerra la parte più violenta è quella che prelude al cessate il fuoco. Negli ultimi giorni di ostilità ogni gruppo in campo cerca di accaparrarsi più terreno possibile. In Afghanistan, dove appunto afgani e talebani sono sempre in guerra, accade ancora. Ma, certo, fa meno notizia che in passato».
Non capita spesso di parlare con un quarantenne italiano che sa cos’è la guerra. Quindi ne approfitto: cosa pensi dell’insistente metafora che paragona il Coronavirus alla guerra?
«Secondo me non ha ragion d’essere, faccio mia l’opinione già espressa dalla mia collega Francesca Mannocchi e con questo non intendo assolutamente sminuire il ruolo di medici e infermieri, che anzi fanno un grande, difficile e pericoloso lavoro. Ma, appunto, trattarli sistematicamente come degli eroi in qualche modo rischia di far venir meno la loro professionalità. Sono professionisti, che in questo momento vanno particolarmente ringraziati e appoggiati, ma non sono eroi, come non siamo eroi noi reporter di guerra. Siamo professionisti che hanno scelto un lavoro che comporta rischi. Precisato questo, non c’è dubbio che la situazione italiana, che osservo da fuori, sia senza precedenti e particolarmente traumatica. La guerra però è diversa, perché ha un nemico visibile ma non ha una fine predefinita. La fine del virus è molto incerta sui tempi, ma che in qualche modo se ne uscirà vincitori siamo un po’ tutti convinti».
Il virus sta cambiando particolarmente la tua vita?
«Non più che ad altri. Vivo a Beirut e faccio il giornalista da qui, con le difficoltà e le cautele del caso, ci mancherebbe. E’ un lavoro, quello giornalistico, molto importante soprattutto adesso ed è un lavoro che si riesce comunque a fare in queste condizioni. A livello di emergenza sanitaria qui la situazione è molto diversa dall’Italia e a Beirut la gente non pensa a similitudini con la guerra, che peraltro conosce bene. Quando sei sul fronte, per esempio e se non altro, sai da quale direzione arriveranno le pallottole. Con il virus non lo sai, quindi davvero le differenze sono tante».
Da fuori, quindi, come vedi l’Italia?
«Come un Paese che sta affrontando una situazione particolarmente dura. Prima che gli Usa emergessero con numeri superiori a tutti, era l’Italia il sorvegliato numero uno, per un fatto proprio di numeri e tempistiche del contagio. Riba-disco in questo senso l’importanza della stampa e il grande lavoro di fotografi italiani come Lorenzo Meloni, e il suo straordinario ser-vizio per Time Magazine, o Alex Majoli, che ha fatto altrettanto per Vanity Fair. Stanno raccontando al mondo quello che succede in Italia»


 
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