Le onde e il freddo dell'Adriatico, la storia del "ravennate" Bujar che nel '91 fuggì dall'Albania

Romagna | 31 Marzo 2021 Mappamondo
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Silvia Manzani
La notte in mezzo al mare nel canale di Otranto, le venticinque ore di traversata, il freddo e le onde. Era il 5 marzo del 1991 quando Bujar Derjai, che aveva 31 anni, si imbarcò dal porto di Durazzo sulla nave Kallmi, insieme a un amico. Sui canali televisivi, allora vietati dal regime comunista albanese in via di dissoluzione, l’Italia sembrava davvero l’Eldorado o, almeno, un Paese dove recuperare libertà e dignità economica: «Io sono nato sotto la dittatura, quindi per me quell’atmosfera controllata era la normalità. Prima di scappare vivevo con mia madre e mio fratello in un piccolo appartamento che pagava lo Stato, lavoravo come tornitore da quando ero adolescente, il nostro livello di vita era medio-basso. Contro il Governo era vietato dire qualsiasi cosa, si rischiava la galera. Ricordo che nell’azienda in cui lavoravo, un giorno, ammanettarono diversi colleghi solo perché a casa avevano i documenti delle attività commerciali ereditate dalle famiglie. Insomma, in concomitanza con i mondiali di Italia ‘90 iniziai a pensare di andar via, anche se l’Albania era nel mio cuore e mai l’avrei lasciata, se non ci fosse stata una forte spinta economica». Il 4 marzo ‘91 Bujar sale su una barca che poco dopo s’incaglia negli scogli: «Quando tornai a casa, mio fratello mi chiese se per caso stessi tentando la fuga. Io gli risposi di no ma il giorno dopo, spronato da un amico, riprovai. La barca non era grande e non era mai andata troppo lontano: a bordo eravamo circa 500, tutti pigiati uno contro l’altro, perché non c’erano cabine». Sono le 8,30 del mattino quando Kallmi salpa alla volta di Brindisi: «Sono cresciuto al mare, non ebbi paura. Addosso non avevo nulla, nemmeno cibo: solo abiti leggeri e pochi soldi nel portafoglio. Durante il viaggio ricordo che ci superò il mercantile Tirana, che trasportava migliaia di albanesi e che arrivò in Puglia prima di noi». Quando Bujar intravede Brindisi, la fiumana umana che sbarca dalle carrette del mare è impressionante: «Eravamo in 25mila, un numero esorbitante per una città piccola e che mai aveva visto una cosa del genere. Nonostante questo, la dimostrazione di umanità della gente del posto fu straordinaria: ci portavamo abiti, ci regalavano cibo, allestirono le scuole per farci dormire. Ci sentimmo non solo accolti e aiutati ma abbracciati, amati. Spesso mi torna alla mente quella generosità, che fu molto più importante di tutti i beni materiali ricevuti». Dopo due mesi a Matera, Bujar insieme ad altri connazionali raggiunge Milano per cercare un lavoro: «La città era enorme, noi non sapevamo dove andare a bussare. Allora partimmo per Venezia, fiduciosi che avremmo potuto trovare un impiego nel turismo. Ma sul treno conoscemmo un ragazzo il cui suocero gestiva il bar di San Siro. Il mercoledì successivo ci sarebbe stata la finale di Coppa Uefa tra Inter e Roma e lui ci invitò a vendere bibite e caffè. Tornammo indietro, dormendo in una carrozza abbandonata, solo per viverci quella serata e incassare due lire, realizzando il sogno di entrare nello stadio che avevamo visto solo in tv». Con i suoi compagni Bujar torna di nuovo a Matera, per poi risalire l’Italia fino a Saronno, dove trova lavoro: «Da allora, non mi è mai mancato. In provincia di Varese sono rimasto dieci anni, ho chiesto il ricongiungimento familiare con Alma, con cui mi ero fidanzato durante le ferie in Albania, e insieme a lei ho avuto due figli, un ragazzo e una ragazza che oggi hanno 22 e 26 anni». Ma col tempo, a Bujar, manca l’odore del mare: «Mio fratello si era trasferito a Ravenna nel 1996, ogni week end lo raggiungevamo a Lido Adriano. Così, nel 2001, proposi a mia moglie di trasferirci, lei acconsentì e nel giro di poco trovai lavoro alle Bassette. Le storie come la mia sono tante, certo è che dopo quella prima accoglienza in Puglia, lo stereotipo dell’albanese inaffidabile e che cerca scorciatoie si è diffuso moltissimo. Non nego che quando una massa numerosa di persone come quella che arrivò nel ‘91 si muove, al suo interno ci sono per forza di cose anche le persone meno raccomandabili. Ma fanno male le generalizzazioni: una carta d’identità non fotografa il valore della persona. Io sono qui che lavoro da una vita, pago le tasse, vivo tranquillo e ho la cittadinanza da sedici anni. L’Italia è anche il mio Paese. E vado fiero del mio percorso». 
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