IL CASTORO | Un film celebra «Lucy», la donna trans sopravvissuta a Dachau. Parlano i registi

Romagna | 29 Marzo 2022 Blog Settesere
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Simona Farneti
«Perché una donna non si può chiamare Luciano? I miei genitori mi hanno dato questo nome e questo nome è sacro». Dietro le parole di Lucy Salani si nasconde la storia di un’identità che resiste e sopravvive. Nata nel 1924 a Fossano, nei pressi di Cuneo e sopravvissuta all’orrore del campo di concentramento di Dachau, oggi Lucy è la donna transessuale più anziana d’Italia, ha 97 anni. La sua storia è stata raccontata nel documentario C’è un soffio di vita soltanto, da un’idea dei registi Matteo Botrugno e Daniele Coluccini, ai quali abbiamo rivolto alcune domande.
Come avete conosciuto Lucy e cosa vi ha colpito maggiormente della sua storia?
«Abbiamo avuto modo di conoscerla tramite un’intervista pubblicata su Facebook, in cui raccontava di essere stata deportata nel campo di concentramento di Dachau come disertore. Non sapevamo cosa aspettarci ma siamo consapevoli del fatto che non è mai troppo tardi per raccontare queste storie e parlando con la diretta interessata abbiamo compreso di trovarci di fronte ad una persona molto speciale, che ha molto da raccontare e che non solo rappresenta un punto di vista diverso dal comune, ma può anche insegnarci tantissimo. La lotta per la propria identità, poi, fa da sempre parte della poetica del nostro cinema».
La storia di Lucy emerge attraverso racconti rivolti a diversi interlocutori. Per quale motivo avete scelto di realizzare un documentario diverso dal solito?
«Alla base di questa scelta vi è la necessità di compiere una sorta di esperimento. C’è un soffio di vita soltanto è il nostro primo documentario e volevamo fosse stilisticamente in continuità con Et in terra pax (2011) e Il contagio (2017). L’esperimento consisteva nel seguire una narrazione da documentario facendo però in modo che la vita di Lucy, piuttosto complessa da raccontare in un arco temporale limitato, venisse specchiata nella sua quotidianità ed emergesse quindi dall’interazione con altre persone, oppure da momenti di silenzio in cui la si vede guidare, fare la spesa, cucinare».
Le persone che compaiono nel film hanno un significato simbolico?
«Non lo definiremmo propriamente simbolico, le persone che compaiono nel film hanno un importante ruolo non solo per lo sviluppo narrativo, ma anche nella vita quotidiana di Lucy. Ambra e Simone sono molto giovani e rappresentano per lei quasi dei nipoti acquisiti. Said è diventato poi una presenza stabile in casa sua e il rapporto creatosi è di aiuto reciproco. Porpora Marcasciano, un nome noto nell’attivismo per la comunità Lgbt, è per Lucy una conoscenza di vecchia data e ci è sembrato opportuno presentare la protagonista stessa attraverso una persona appartenente a una generazione successiva. Anche la vicina di casa di Lucy, la signora Maria, è un personaggio singolare con la quale la protagonista scambia discorsi dalle sfumature curiosamente piccanti, talvolta surreali. Una simbologia nel ruolo dei personaggi è però riconoscibile nella necessità di costruire una famiglia, indipendentemente dal fatto che quest’ultima sia biologica o meno».
C’è un soffio di vita soltanto è l’ultimo verso di una poesia scritta da Lucy. Che significato attribuite a questo verso?
«Lucy si è sempre espressa nella scrittura di poesie, la maggior parte delle quali a sfondo erotico e giocoso. Vi sono però alcune poesie più serie e quella che si conclude con i versi “Riposan le foglie ingiallite / su un mondo di cose appassite / c’è un soffio di vita soltanto” è per noi particolarmente rappresentativa della vita di Lucy, poiché l’immagine di un autunno che stende un velo di malinconia sulla natura ci è sembrato potesse essere compatibile con quanto vissuto dalla protagonista. L’ultimo verso crea poi un contrasto con la sua lunghissima vita».
Lucy è un modello di lotta per la libertà della nostra identità. Cosa volevate trasmettere raccontando la sua storia?
«Crediamo che la sua storia possa essere d’ispirazione per le tante persone che lottano per affermare la propria identità. La protagonista ha ormai 98 anni, ha vissuto sulla sua pelle uno dei momenti più bui della storia dell’umanità, diventando modello di resistenza per via del suo forte attaccamento alla vita. Nella parte finale del documentario, Lucy si ferma di fronte a un memoriale nel campo di concentramento di Dachau e dice “Io sono qui”. È una delle frasi più rappresentative del documentario poiché racchiude un bellissimo messaggio: nonostante tutto vive, non sono riusciti ad ucciderla, è un grandissimo insegnamento».
Come siete riusciti a rendere la complessità della vita di Lucy (uomo, donna, prostituta, deportato)?
«Il nostro scopo non era quello di raccontare ogni singola identità che abita il corpo di Lucy. Con questo documentario abbiamo in realtà tentato di restituire allo spettatore un ritratto di una vita dalle mille sfaccettature, tratteggiando le parti che restituivano l’idea più giusta di una personalità così speciale e variegata come quella della protagonista. La molteplicità di identità che caratterizzano Lucy riguarda ognuno di noi: nel tempo la percezione che abbiamo di noi stessi si trasforma e ci trasforma».

 
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