IL CASTORO | La scrittrice Michela Murgia a colloquio con gli studenti a Faenza

Romagna | 25 Marzo 2019 Blog Settesere
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Anna Balducci, Elena Casadio
L’oscura figura dell’accabadora, che porta su di sé la colpa della buona morte, non esiste, ma diviene la storia di qualunque donna che abbia avuto fra le mani questa responsabilità. E l’accabadora raccontata dalla Murgia, Bonaria Urrai, diventa anche la madre affiliata della piccola Maria Listru. Martedì 12 marzo l’autrice, a sua volta «fill’e  anima», ha risposto alle domande dei lettori del liceo Torricelli-Ballardini.
Accabadora si nasce o si diventa?
«Si diventa, ma insieme, nel senso che non è una vocazione individuale, è una funzione che si sviluppa grazie a una comunità che richiede quel servizio e ne protegge l’impunibilità. In Sardegna non esiste l’accabadora, né è mai esistita. È una figura indimostrabile dal punto di vista storiografico e smentibile da quello antropologico. Ciò che davvero è esistito è l’azione che lei compiva, non il mestiere. È più probabile che qualunque donna, all’occorrenza, fosse addestrata a svolgere quel compito. Mai, però, per i propri genitori, perché il vantaggio tratto sarebbe stato eccessivo, dall’eredità alla sollevazione da una cura gravosa. Poteva essere una vicina di casa a chiederti di fare un gesto simile
verso suo padre. Lei l’avrebbe fatto per te e tu, a suo tempo, l’avresti fatto per lei. È un gioco di colpe che passano di mano in mano. Fino agli anni ‘50, la comunità sarda ricorreva a quella figura leggendaria, che sintetizzava in sé tutte le colpe».
C’è un’esperienza personale dietro la stesura del libro?
«Non ho mai ucciso nessuno, nonostante tante volte lo abbia desiderato... Io volevo, in primis, raccontare la storia di Maria come fill’e anima, perché io stessa e i miei cinque figli, lo siamo. Il tema dell’accabadora è quasi secondario, la parte interessante per me era il fatto che Bonaria diventi madre di una bambina che non è sua figlia, con una scelta reciproca. Mi sembrava interessante, in un mondo come quello occidentale contemporaneo, con un’idea della relazione tra madri e figli quasi tossica -non è vero che di mamma ce ne sia necessariamente una solaraccontare quanto possa essere interessante la complicata relazione tra genitori e fill’e anima».
I vari personaggi sono ispirati a persone reali? Quale preferisce?
«Per alcuni, come la maestra Luciana, la famiglia torinese e Andrìa, avevo in testa persone precise. Per Bonaria e Maria, invece, no. Il caso di Bonaria è particolare. Per anni ho partecipato a un gioco virtuale di scrittura medieval-fantasy, Dream A Lot, in cui il giocatore inventa il carattere del suo personaggio. Il mio era una figura per molti versi simile a Bonaria. Lei mi piace tremendamente perché è spiritosa, feroce, intelligente e agisce per amore anche
quando fa le cose peggiori. Come i cattivi che preferisco, quelli convinti di fare del bene. Mi sta meno simpatica Maria, che è anche meno intelligente, ma quest’anno una regista, rappresentando Accabadora in teatro dal punto di vista di Maria cresciuta, che ricorda e racconta, mi ha svelato un lato di lei che non avevo immaginato, completando, in un certo senso, il mio lavoro».
Cosa avrebbe fatto lei alla fine nei panni di Maria?
«Spero di non trovarmi mai in quella situazione, ma se una persona amata me lo chiedesse io lo farei. Sono convinta che, dentro una relazione affettiva, le persone abbiano il diritto di chiedere a coloro che li hanno amati di più in vita di
porre fine alle proprie sofferenze. È più problematica la questione ospedaliera. Il mondo che racconta Accabadora è un mondo antico. L’attuale percezione della morte è molto diversa. La tecnologia ci ha consentito di avere dei tempi di ricovero che non sono più vita come la intendiamo noi, né morte com’è definita clinicamente. L’accabadora, lì, non servirebbe. Oggi la domanda è se una persona pagata potrebbe fare lo stesso gesto, tenendo presente che non si tratta di qualcuno che ha con l’agonizzante un rapporto d’amore».
Quale parte del libro preferisce e dove ha trovato più difficoltà?
«Il passaggio più bello l’ho scritto tutto in una notte, in un locale di un ristorante: è la scena di Maria che indossa la corona di pane. Il peggiore in assoluto, invece, è la fine. A differenza dell’accabadora, esperta in finali, io non lo sono affatto. Fosse per me, i libri non li finirei mai. Ci metto anni a scriverne uno e scrivo sempre malvolentieri, ho un blocco permanente. Quando arriva la fine, poi, mi viene voglia di riscriverlo da capo. Questo, naturalmente, è più
difficile se si ha un contratto da rispettare».
Come ha ricostruito gli aspetti più tradizionali della storia?
«Ho avuto una macchina del tempo formidabile, mia nonna. Sono cresciuta con una donna che aveva 74 anni più di me e che, come tutti noi probabilmente, non ha vissuto di fatto tutti gli anni della sua vita. Tutti arriviamo a un certo momento in cui, in un anno, ci troviamo veramente bene, felici, amati, in cui tutte le nostre potenzialità sono espresse
al massimo. E in quell’anno lì, decidiamo di fermarci. Tutti quelli che vengono dopo sono una ripetizione, una copia. Mia nonna, quando sono nata, era già entrata in quel ciclo. Lei viveva con le tradizioni, con gli usi e i costumi degli anni ‘50 e io grazie a lei ho trascorso la mia infanzia in quegli anni».
Quando Bonaria si rivolge a Nicola dicendo «Se un uomo vale la sua gamba, un tavolo vale molto più di te», è consapevole che un tavolo, senza una gamba, perde buona parte della sua funzionalità?
«Chiaramente Bonaria pensa che Nicola abbia ragione. Nel mondo di questi personaggi non esistono molte declinazioni né della figura maschile, né di quella femminile. Fino agli anni ‘50 c’era un modello maschile chiamato Balente: un uomo compiuto che sa, sa fare, può fare ed è considerato la punta di diamante della comunità. Nicola è uno
di loro, ma fa la cosa sbagliata e gli viene a mancare il poter fare. Così preferisce che la morte fisica giunga con la morte civile. Occorre essere in grado di adattarsi, perché la vita cambia spesso forma. Nel romanzo è Andrìa il personaggio che cambia di più e anche dal punto di vista darwiniano sarebbe lui il modello più riuscito».
Il finale è ambiguo. Maria uccide Bonaria?
«Non risponderò a questa domanda, infatti non ho scritto un finale esplicito. Questo ha consentito ad alcuni di recensirlo come un libro a favore dell’eutanasia, ad altri come un’opera contro di essa».
Cosa ne pensa lei dell’eutanasia?
«Il mio non è un romanzo sull’eutanasia, ma sulla responsabilità reciproca, anche della morte. Comunque sono a favore dell’autodeterminazione dell’individuo, anche in punto di morte. Nel caso in cui  la persona non possa decidere per sé credo che coloro che l’hanno amata in vita possano decidere secondo il suo dolore e la sua fede. Una decisione
del genere non dovrebbe mai andare in mano a un medico».
In ultimo ci racconti, cosa l’ha spinta a diventare una scrittrice?
«Mai avrei pensato che questo sarebbe diventato il mio lavoro, ne ho fatti mille altri. Il peggiore è stato fare la telefonista in un call center. Era talmente allucinante che ho sentito il bisogno di raccontarlo, anche agli amici increduli. Ho aperto un blog, Il mondo del sapere, in cui condividevo il tempo passato al lavoro. Poche settimane dopo un editore mi ha proposto di trasformarlo in un libro. Subito ho rifiutato: il blog doveva rimanere anonimo, non volevo
perdere il posto di lavoro. Poi, alla sua offerta di pubblicare il libro e assumersi la responsabilità delle spese legali per un’eventuale denuncia, ho accettato. Il libro ha venduto quarantamila copie e ne è stato trattoun film, Tutta la vita davanti. Da quel momento ho ricevuto proposte irrifiutabili da parte di diverse case editrici. Per mia natura, io scrivo
solo se costretta; se lo facessi per me stessa non pubblicherei nulla. C’è chi dice «se io non scrivo sto male».
Io, se sto male, non scrivo. Per me è un atto politico, di lotta. Quando scrivo è perché mi trovo in una situazione talmente orrenda che non c’è nessun altro modo per affrontarla se non quello di raccontarla».
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