IL CASTORO | La missione della coop. sociale «Laura» di Faenza: «Dare un’occasione a chi l’ha persa»

Romagna | 25 Marzo 2020 Blog Settesere
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Ilaria Mingazzini

La cooperativa è nata nel 1991. Si chiama «Laura» perché è nata dall’esperienza di una donna che, dopo essersi ammalata di tumore, ha sperimentato come la malattia possa diventare uno stigma. Quando è mancata, le sue amiche hanno deciso di portare avanti l’idea che una persona è altro rispetto alla malattia di cui soffre, creando una comunità psichiatrica per donne. Oggi è costituita da un centro residenziale che accoglie 19 ragazze. Vivono in una casa con psicologi, educatori e oss, hanno le loro stanze, i loro bagni, delle zone comuni e una cucina molto grande. La comunità comprende inoltre un gruppo-appartamento sempre sorvegliato, in cui le ragazze fanno la prima esperienza di gestione di una casa. Sono loro a fare la spesa, cucinare e occuparsi delle faccende domestiche, in più possono praticare un’attività esterna a scelta tra un tirocinio lavorativo, un corso professionalizzante o un vero e proprio lavoro. Poi passano al gruppo-appartamento h12, in cui l’operatore è presente dalle 8 alle 20 e trascorrono la notte da sole, anche se c’è un sistema per cui, se qualcuna esce, parte automaticamente un messaggio all’operatore di turno nella residenza. In questo periodo si verifica se rispettano quanto concordato o se si mettono a rischio. Ci sono poi tre appartamenti in condomini, dove l’operatore è presente cinque giorni alla settimana per sei ore, ma è sempre reperibile in caso di bisogno. Il Castoro ha intervistato la presidente Erika Naldoni, da vent’anni psicologa nella cooperativa, per scoprire qualcosa di più su queste nuove modalità di gestione del disagio psichico.

Seguite l’esempio della psichiatria inaugurata dalla legge Basaglia?

«Basaglia aveva ben intuito che i manicomi per come erano stati pensati non andavano bene, quindi aveva dato delle linee generali per la loro chiusura. Il problema è che è morto nel 1980 e la legge era stata approvata solo nel ’78, quindi non ha potuto lavorare sull’applicativo. I manicomi sono stati chiusi, ma le persone sono finite per strada, oppure sono tornate nelle famiglie, dove spesso avevano sviluppato il loro disagio. Nella nostra comunità riproponiamo quindi modelli familiari e dell’attaccamento, per risolvere i problemi legati alla sfera dell’affettività».

Il trattamento delle pazienti donne prevede delle differenze specifiche legate al genere?

«Il tasso di incidenza della malattia mentale è più alto negli uomini rispetto alle donne, ma laddove viene colpita una femmina il livello di sofferenza è molto maggiore rispetto a quello del maschio. Tenere una comunità solo femminile è un’impresa titanica, perché si verificano le solite dinamiche di litigi fra ragazze, ma in maniera più accentuata. In compenso non c’è il rischio di promiscuità. Nei manicomi spesso si creava come un mondo parallelo, in cui addirittura i pazienti si accoppiavano, facevano figli. Nella nostra comunità c’è invece il rischio che l’ambiente protetto in cui vivono diventi un nido da cui è molto difficile staccarsi. Se si aggiungesse anche il genere maschile non se ne uscirebbe più».

Perché accogliete anche donne condannate per motivi psicologici/psichiatrici o di tossicodipendenza?

«Perché non le vuole nessuno, fanno paura. Questo posto nasce per dare un’occasione a chi l’occasione l’ha persa. La nostra carta dei servizi si apre con il primo canto della Divina Commedia. Le ragazze che vengono qui sono, come Dante, perse nella selva oscura della vita, pensano che tutto sia sbagliato, hanno un’immagine di sé negativa, sono arrabbiate, tristi, impulsive. Noi ci sentiamo come Virgilio che chiede a Dante di seguirlo. “Allor si mosse e io li tenni dietro”. Passati tutti i gironi dell’Inferno e attraversato il Purgatorio, alla fine si riesce a trovare la via d’uscita. Però Virgilio si ferma lì, allo stesso modo noi non entriamo nella vita delle persone».

Che complessità comporta ospitare queste persone?

«Chiusi gli Opg (ospedali psichiatrici giudiziari) cinque anni fa, i pazienti che non sono potuti entrare nelle Rems (residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza) per lo scarso numero di posti disponibili, sono venuti in comunità. Tuttavia tenere qui malati recidivi come uno psicopatico è pericolosissimo, sia per chi ci lavora, sia per gli altri pazienti, perché non disponiamo del personale di sicurezza. In caso ad esempio di una crisi pantoclastica (caratterizzata dall’impulso morboso a rompere qualsiasi oggetto si trovi nell’ambiente circostante n.d.r) non possiamo praticare la contenzione, che è permessa solo negli Spdc (servizi psichiatrici di diagnosi e cura), ma dobbiamo chiamare le forze dell’ordine. Dopo qualche ora però la persona verrà riportata qui, perché non c’è nessun altro posto dove tenerla».

Quali tipi di terapie proponete?

«Il nostro percorso non prevede una terapia farmacologica, ma si concentra sul piano psicologico con gruppi, colloqui individuali e attività educative. Non mancano però anche laboratori di trucco, fotografia, decoupage, ceramica e cucina».

Qual è l’età media delle vostre ospiti e quali sono le problematiche più comuni?

«Ospitiamo solo ragazze maggiorenni, perciò l’età media è di trent’anni. I disturbi della personalità vanno per la maggiore, in particolare quelli appartenenti al cosiddetto cluster B, ovvero legati all’impulsività e alla gestione delle emozioni, come il disturbo borderline. Altre patologie meno frequenti sono il disturbo schizoaffettivo e il disturbo dissociativo dell’identità».

Quali sono le differenze rispetto a scontare una pena in carcere o in comunità?

«Il carcere oggi è come una sorta di comunità blindata. Non ci sono i carcerieri, ma psicologi ed educatori e si fanno attività, lavori. L’ambiente è accogliente e lo svolgimento delle mansioni e il rispetto degli orari viene imposto dagli assistenti. Il passaggio da un penitenziario alla comunità è difficile, perché qui non decidono gli altri, ma è il paziente stesso a dover decidere. Alcuni in un ambiente così poco contenuto hanno problemi comportamentali, non riescono a rispettare le regole e preferiscono tornare in carcere.  La comunità offre l’opportunità di mettersi in gioco, entrare in relazione con gli altri, svolgere attività all’esterno; saperla cogliere è però una scelta dell’individuo». 

 

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Siete sicuri che date a loro una casa accogliente e cercaye di riportarle alla realtà? Mai visto uscire dalla coop Laura una petdona guarita, più consapevoke e indipendente. Ho vusto dolo perdone distrutte dai farmaci, tenute in ibernazione mentale, incapaci più di quando erano fuori di risollevarsi! Questa è la mua opinione. P.s. Alcuni pscicologi dovrebbero essere in manicomio! La legge Basaglia di riferiva alle persone che avevano bisogno di aiuto per uscire dalle loro trappole mentali!
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