Sara Martinino
Elisabeth Vogler è un’attrice, il suo lavoro consiste nell’interpretare, mettere in scena, costruire finzioni che su un palco prendono vita, quasi come se esistessero realmente. Elizabeth si sente così, sente di vestire quotidianamente una maschera, come uno dei tanti personaggi di cui indossa i panni in un qualsiasi spettacolo teatrale. Durante una sua esibizione, presa da un’irrefrenabile voglia di ridere, si blocca, smette di parlare e decide di nascondersi dietro un totale mutismo. La donna viene quindi visitata da una dottoressa, che capisce ed empatizza immediatamente con il suo sentire. «Credi che non ti capisca? Tu insegui un sogno disperato, questo è il tuo tormento. Tu vuoi essere, non sembrare di essere. Essere in ogni istante cosciente di te e vigile. Nello stesso tempo ti rendi conto dell’abisso che separa ciò che sei per gli altri da ciò che sei per te stessa e questo provoca quasi un senso di vertigine, un timore di essere scoperta, di vederti messa a nudo, smascherata, riportata ai tuoi giusti limiti. [..] Meglio rifugiarsi nell’immobilità, nel mutismo, così si evita di dover mentire, oppure mettersi al riparo dalla vita, così non c’è bisogno di recitare, di mostrare un volto finto o fare gesti non voluti. Non ti pare? Questo è ciò che si crede ma non basta celarsi perché, vedi, la vita si manifesta in mille modi diversi ed è impossibile non reagire».
Sotto prescrizione della dottoressa la protagonista è tenuta a passare un periodo di tempo in una casa al mare, accompagnata da un’infermiera di nome Alma. Tra quest’ultima ed Elisabeth si instaura un rapporto profondo: Alma si sente libera di parlare, trova nell’altra un appoggio, un silenzio accogliente. Il legame diventa sempre più forte quando entrambe scoprono di condividere un segreto simile, Alma ed Elisabeth si fondono, perdono le loro singole identità, dipendono l’una dall’altra, diventando quasi un’unica persona. In un vertice di sperimentalismo registico però, la pellicola a un certo punto brucia, si rompe, come la loro connessione, a causa di un torto commesso dall’attrice.
Perché il titolo Persona, che cosa significa? «Persona» deriva dal latino e ancor prima dall’etrusco phersu, maschera teatrale. Il titolo evidenzia un punto fondamentale del film, ossia l’essere e il sembrare di essere, due diverse percezioni a cui l’uomo è sottoposto: la prima è quella che abbiamo di noi stessi, una percezione interna, mentre la seconda è quella che gli altri hanno di noi, che è dunque esterna. Elisabeth vuole scomparire, evadere da una stanza nella quale si sente osservata e giudicata, la società, per questo desidera annullarsi, ma facendo ciò inconsciamente indossa un’altra maschera.
Una delle scene più significative, dove è possibile vedere la fusione delle protagoniste, è il momento in cui lo schermo viene diviso in due, da una parte metà del volto di Elizabeth e, dall’altra, metà di quello di Alma: così formano un unico viso, un’unica persona.
Ingmar Bergman, come un architetto, prende le misure, posiziona i personaggi creando composizioni uniche, che riempiono lo schermo senza bisogno del superfluo. Sono scene ricercate, esplicative dell’inconfondibile stile del regista. I fotogrammi sono semplici, bianco e nero, aperto e chiuso, luci e ombre, Elisabeth e Alma, questo è l’essenziale, ciò con cui Bergman misura la sua grandezza.
Persona è un film senza tempo, non invecchia, tratta di questioni, di emozioni, di sentimenti che appartengono all’uomo, ovunque si trovi e in qualsiasi epoca viva.