IL CASTORO | Il preside Luigi Neri: «Liceo musicale a Faenza? Le forze non mancano»

Romagna | 11 Giugno 2020 Blog Settesere
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Elena Casadio

Il liceo Torricelli-Ballardini di Faenza conta un totale di sei indirizzi tra cui artistico, classico, linguistico, scientifico tradizionale, scientifico con opzione scienze applicate e scienze umane. Perché non considerare anche l’opportunità di un indirizzo musicale?

Cerchiamo di capire con il dirigente scolastico Luigi Neri se sia possibile dar vita a questo ulteriore percorso di studi.

Qualche anno fa era stato fatto un tentativo di avviare un indirizzo musicale nel nostro liceo, ma gli iscritti furono pochissimi e tutto naufragò. È così?

«Non è esattamente così. Gli iscritti erano numerosi. Ma, a quanto intesi, all’esterno ci fu chi ‘non favorì’ questa nostra sperimentazione, non ho mai capito per quali diffidenze. In realtà il progetto si concluse perché la scuola uscita dalla riforma del 2010 aveva cancellato dall’indirizzo scienze umane l’insegnamento della musica, che invece era previsto, almeno come opzione, nel liceo socio-psico-pedagogico. Dunque non avevamo più una materia curricolare a cui agganciare i percorsi musicali».

E oggi pensa che sia percorribile l'ipotesi di creare un indirizzo musicale e coreutico?

«Sulle prime pensavo di rispondere ‘no’. Riflettendo, noto però che la provincia di Ravenna è una delle poche realtà territoriali emiliano romagnole in cui manca un liceo musicale conforme all’ordinamento nazionale. Tuttavia esistono numerose scuole secondarie di primo grado con sperimentazione musicale. A Faenza, una di queste è da molto tempo in funzione presso il Comprensivo Carchidio Strocchi. Certo, contro l’istituzione di un indirizzo musicale, si potrebbe obiettare, oltre al fatto che già esiste a Forlì, anche la considerazione che Faenza non è capoluogo di provincia. In realtà, se guardiamo all’assetto del suo territorio, essa è facilmente raggiungibile da Imola, dalle valli del Lamone, del Marzeno e del Santerno, forse da Lugo, e non è troppo distante da Ravenna. Ciò potrebbe consentire di formare almeno una classe. Quindi, a conti fatti, rispondo ‘perché no’, o ‘forse sì’».

Nel liceo musicale teoria e pratica degli strumenti avrebbero uno stesso peso? Su quali periodi e quali generi dovrebbe incentrarsi maggiormente la didattica?

«Per quanto riguarda l’assetto didattico, occorrerebbe attenersi fondamentalmente ai quadri orari previsti dalla riforma del 2010. Le materie di formazione generale sono quelle di tutti i licei, vale a dire le scientifiche, la lingua straniera, la filosofia e la storia dell’arte. Nel musicale le ore settimanali di lezione sono 32, a fronte del massimo di 31 previsto per il classico, di 30 per lo scientifico e di ben 35 per l’artistico. Assume una posizione di centralità l’apprendimento tecnico-pratico della musica, finalizzato anche all’esecuzione. È prevista la possibilità, oltre alla sezione propriamente musicale, anche di una coreutica. Viene attribuito un certo spazio anche alla tecnologia musicale, con tutte le competenze di vario genere che essa comporta e le occasioni di inserimento nelle attività lavorative o di prosecuzione degli studi. Per quanto riguarda i generi musicali, credo che non siano opportune chiusure e preclusioni. Anche le indicazioni nazionali, d’altra parte, attribuiscono ampio spazio alla contemporaneità».

L'Italia è famosa per l'opera lirica. Lei ritiene che questo genere possa continuare ad essere ambasciatore dello spirito italiano nel mondo, oppure pensa che ormai sia amato solo da un numero ristretto di cultori, anagraficamente non più giovani?

«Sull’opera lirica ci sarebbero molte cose da dire. Puccini, in particolare, piace molto ai giovani perché, una volta sottratto ai facili sentimentalismi in voga alcuni decenni or sono, egli dà voce ai drammi del mondo giovanile e ai conflitti con le gerarchie sociali o i poteri costituiti. Come ben sapete, il protagonista dell’opera, Rodolfo, scrive un articolo per Il Castoro. Per quanto riguarda Rossini e Verdi, il loro talento creativo, in molti casi, rappresenta noi italiani come, ancora oggi, in gran parte siamo. Penso alla nobiltà scalcagnata della Cenerentola, in cerca di facili rendite e di lucrosi privilegi; o magari ai cortigiani del Rigoletto, vergognosamente compiacenti nei confronti del potere; o ai capipopolo del Simon Boccanegra, alla ricerca, più che altro, di un facile tornaconto personale. Rossini, poi, è, pur con le indubbie differenze, una sorta di Mozart italiano.  Verdi, nonostante le parvenze popolari, è un musicista aulico, decisamente politico e filosofico: grande inventore e tutt’altro che facile. Non dimentichiamo Bellini; egli, nella sua sobria nobiltà e nel suo sofferto ‘buonismo’, rende l’idea di un’Italia quale, forse, potrebbe –o poteva essere. Egli viveva nel primo Ottocento; probabilmente, dopo non siamo stati all’altezza di questo ideale civile. Ma per quanto riguarda l’opera nel suo insieme, c’è anche qualcosa di più. Essa ammette una varietà di approcci molto ampia: teatri, canto, strumenti, scene, regia, critica, cd e dvd. Tutto questo non è da trascurare come occasione di lavoro».

Perché conoscere in profondità una sinfonia di Beethoven o sapere apprezzare un concerto di Duke Ellington, dovrebbero essere valori aggiunti nella formazione di un giovane di oggi?

«Devo confessare - e un po’ me ne rammarico - che conosco piuttosto poco Duke Ellington. Ma rispondere a questa domanda è fin troppo facile. La musica è stata, storicamente, una componente essenziale della nostra cultura. Per esempio, il Romanticismo, su cui la nostra scuola tanto insiste, non può essere capito a fondo senza conoscere Beethoven, Schubert o Schumann. Non dimentichiamo, poi, che cosa è stata la musica nel Novecento. Il messaggio di speranza in un mondo migliore era trasmesso ai giovani da essa. La musica abbatte le frontiere: non conosce barriere, razze o patrie. Parla al nostro mondo interiore, e allo stesso tempo ci invita a esplorare la più vasta realtà circostante. È poco? Non credo proprio. Forse c’è da chiedersi perché la nostra scuola e la nostra cultura la abbiano relegata a una posizione di rango inferiore. Tempo fa avevo pensato a una risposta: la musica è corporea, parente stretta della danza: libera il corpo e le sue energie; detto in altri termini, essa ha, almeno nel nostro contesto culturale, quasi un’anima rock. Per questo motivo, essa ha sempre suscitato diffidenza da parte della nostra cultura, forse perché è troppo manuale, è imprevedibile e non è facilmente controllabile. Nella scuola superiore italiana, a seguito della riforma ‘Gelmini’, la musica è di fatto scomparsa, con l’eccezione di pochi licei musicali. Nel vecchio istituto magistrale c’era una materia che si chiamava canto corale. Ma il nome già la dice lunga; restava ben poco oltre i canti natalizi o i mormorii del Piave».

Il mercato del lavoro in Italia è pronto ad assorbire giovani diplomati al Conservatorio, che forse è la prosecuzione più normale di un liceo musicale?

«Non è facile trovare lavoro per i giovani musicisti. Il problema è non solo scolastico, ma culturale e politico. Occorrerebbe diffondere nella società italiana la conoscenza e la pratica della musica e potenziare le istituzioni musicali. Forse è bene studiare la realtà di altri paesi, per esempio la Germania o l’Europa dell’Est. Ma non mancano segnali positivi anche nel nostro ambiente. Non dimenticate, per quanto riguarda Faenza, l’esperienza del Mei, il Meeting etichette indipendenti. Certo, dovrebbe cambiare, e non poco, la nostra scuola di tradizione umanistica, che è portatrice di una cultura ancora troppo paludata e retorica. Ma ben vengano i musicisti, i tecnici del suono, gli organizzatori di eventi musicali. Giova ricordare che Faenza è nelle retrovie della riviera romagnola e questo la rende una meta ideale anche per turisti stranieri».

Lei dunque pensa che ci sia margine per un tentativo a Faenza?

«L’idea è buona e la battaglia merita di essere combattuta. Si potrebbe costituire un comitato promotore e cercare di sensibilizzare il mondo politico. Se ci pensiamo bene, le forze a Faenza non mancano, e io stesso -per quel poco che posso contare - offro la mia piena disponibilità».

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