IL CASTORO | I «remedia amoris» di Maurizio Maggiani: «Un amore qualunque in un qualunque giorno d’amore»

Romagna | 07 Giugno 2020 Blog Settesere
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Ilaria Mingazzini

Fotografo, pubblicitario, venditore di pompe idrauliche, presentatore televisivo, maestro… Maurizio Maggiani ha praticato una miriade di mestieri e oggi è uno scrittore di successo, che ha vinto tutti i più importanti premi letterari italiani con libri tradotti in diverse lingue. L’unica cosa che dice di saper fare nella vita è raccontare storie. L’ultima è stata pubblicata nel 2018 da Feltrinelli con il titolo L’amore. «Un gesto di guerriglia alla paura di questa parola», lo definisce lui che, cresciuto nell’epoca peace and love, usava le parole amore e rivoluzione senza vergogna o pudore. Non è l’amore di Madame Bovary e non è nemmeno l’amore di un grande intellettuale, perché ogni vita è una grande vita e ogni amore non può che essere un grande amore, sostiene. Questa è stata la sfida di Maggiani: raccontare la grandezza di un amore qualunque in un qualunque giorno d’amore. Così si racconta al Castoro.

Perché nel libro non usa mai le parole marito o moglie, ma solo sposo e sposa?

«Perché il matrimonio non mi interessa, è un contratto civile inventato con lo scopo di conservare l’asse ereditario. Matrimonium significa “parte della madre”, ovvero figli, mentre la parte del padre è il patrimonio. Invece lo sposalizio è un’altra cosa, sponsus vuol dire “promessa”».

Qual è il rapporto fra il sacro e l’amore?

«L’etimo di questa parola significa “che sta sopra” e io penso di avere diritto a qualcosa che sia ineffabile, più grande di me, anche se non sono credente. Nella cultura contadina da cui vengo l’oggetto più sacro, per cui si è concepito il più complesso ordinamento rituale è il cibo. E tutto il rituale d’amore è un rituale di nutrimento. Gli uccelli e alcuni mammiferi per nutrire i piccoli mangiano e rigurgitano il cibo nelle loro bocche. Il bacio è quello, nutrirsi reciprocamente scambiandosi la saliva, che anticamente era il fluido vitale. Anche il gesto dell’accoppiamento, che cos’è se non nutrire l’uno dell’altro? Lo stesso piacere è un nutrimento. Nutrimento e piacere vanno insieme, se una cosa ti disgusta non la mangerai mai».

L’amore è un sentimento che nasce spontaneamente, ma come evolve nel tempo?

«Sicuramente diventando adulto entra in gioco la consapevolezza, anche perché non è così semplice mantenere viva quest’ineffabile gioia quando diventa pratica quotidiana. La caratteristica dell’amore adulto è la gratuità. Io mi sono sentito amato tantissimo da mia nonna, che pur non essendo sempre d’accordo su chi ero continuava a volermi bene. Il suo amore era gratuito, perché non chiedeva in cambio che fossi diverso da quello che ero».

Come si fa a mantenere la promessa per tanto tempo?

«Non è facile per niente. Io ho rotto diverse promesse. Non lo so, è successo e non lo so. Credo che con l’età arrivi una forma di arrendevolezza a ciò che sei. Chi guasta la promessa spesso è uno che non sa bene chi è, e si innamora continuamente perché innamorarsi aiuta a definire chi si è. Arrendersi a tutto quello che c’è di buono in sé e tollerare quello che non c’è di buono, se non si può proprio cambiare, aiuta molto. Inoltre senza libertà non si è nemmeno capaci di creare dei vincoli e non si mantengono le promesse. Poi da ragazzi si è molto sbadati, pieni di energie, di forza, di entusiasmo e si rompono le braccia, i piatti, gli amori. Con l’età adulta, col passo che si fa più lento, l’occhio che si fa più vigile, le mani più delicate e più attente, allora c’è la tenerezza, che diventa qualcosa a cui non si può più rinunciare, né alla tenerezza nei propri confronti, né alla tenerezza nei confronti del proprio amato. Non so immaginarmi una mattina che dovesse cominciare senza un gesto di tenerezza».

Nel corso della vicenda ci sono due modi in cui lo sposo manifesta il suo amore per la sposa: servendola e raccontandole fatterelli. Amare vuol dire servire o parlare?

«Parlare troppo non va mai bene, io ho parlato troppo nella mia vita. Però raccontare fatterelli non è parlare, è raccontare storie. È diverso perché appartiene a un modo completamente diverso di fare comunicazione. È come raccontare le favole prima di andare a letto. Ha a che fare con “Vieni, ti porto in un altro mondo che è solo per te e per me”. È un mondo meraviglioso e terribile, bellissimo ma anche angosciante, come il mondo delle favole. Poi, certo, servire è importante, ed è proprio una cosa bella».

Secondo lei ripetersi tante volte ti amo, come fa il protagonista nel suo libro, può essere un esercizio utile per chi vuole imparare a dirlo bene?

«Sì, può essere un esercizio interessante. Se ti viene da ridere o se ti vergogni non va bene, vuol dire che devi pensarci. Io ci penso sempre anche adesso. Questo mi mette in discussione, ed è importante perché non è che le cose funzionino bene se non ti fai domande. Le cose funzionano bene solo quando te le fai e imparare a dire ti amo è imparare a farsi una domanda che ha la risposta nella domanda stessa: farsi la domanda è la risposta».

Visto che lei è cresciuto nell’epoca New age, cosa pensa di quello che la mia generazione chiama poliamore? Secondo lei è possibile amare più di una persona contemporaneamente?

«La mia generazione lo chiamava “darsi da fare”. Poliamore è un’espressione veramente agghiacciante. Mi è capitato di amare più persone contemporaneamente, credo che appartenga a una fase della vita di ciascuno, in cui ancora non si sa bene chi si è. Io ho vissuto in un’epoca di grande disordine istituzionale, culturale e anche sessuale perché era tutto da scoprire, costruire, distruggere, per cui non sapevamo mai bene chi eravamo e cosa facevamo. Però alla fine -sarà che sono un campagnolo- finché ero io a darmi da fare andava bene, ma quando scoprivo che era un mio amore a darsi un gran da fare non mi andava più tanto bene. Quindi alla fine c’è un aspetto culturale e genetico che su queste cose non riesce a mettere in pratica correttamente la teoria. Tutto è finito naturalmente negli anni ’80 con l’aids e al poliamore ciao».

Cosa ama leggere? Anche libri diversissimi dai suoi?

«Non leggo mai i miei libri, sia chiaro che non sono fra i miei autori preferiti. Mi piacciono le grandi storie, mi piace viaggiare, essere in altri mondi, in altre persone. Se posso scegliere scelgo sempre le storie che finiscono bene o che comunque non finiscono male. Le storie che finiscono male non le sopporto, per cui spesso vado a leggere subito come finiscono, poi con calma vado avanti con la lettura. Troppe storie finiscono male e quindi non mi piace infliggermene una di mia volontà».

«Una vita votata alla musica, se non a suonarla almeno a sentirla» dice il protagonista del romanzo. Che importanza ha la musica per lei?

«Ha la stessa importanza dell’amore, è la misura della grandezza della vita. Una musica mi piace perché suscita in me gli stessi sentimenti che provo quando dico “Amo questa persona”. L’eccitazione che mi dà la musica è un’eccitazione non diversa. Io ascolto musica e canto continuamente perché ne ho bisogno. Come sento il bisogno di rappresentare i miei sentimenti nel gesto sessuale, così sento il bisogno di rappresentarli nel gesto canoro. È sempre Eros, infatti chi ha inventato la musica, Orfeo, era uno che si dava un gran da fare».

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