Faenza, restaurato ed esposto il «Venerdì Santo» di Romolo Liverani

Romagna | 11 Marzo 2023 Cultura
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Sandro Bassi
Torna «in scena» - è il caso di dirlo - l’affascinante apparato per la Settimana Santa dipinto da Romolo Liverani per la chiesa di Santa Maria Nuova. «In scena» perché pur essendo un’opera sacra appare imbevuto di un’atmosfera scenografica e romantica, tipica del Liverani e del teatro ottocentesco.
E’ stato il vicedirettore del museo Diocesano, Giovanni Gardini, a ripescarlo da un oblio ventennale, a toglierlo dalla cantoria dell’organo dove giaceva arrotolato e a farlo rimontare sul «boccascena» del presbiterio, che così si trasforma in un vero e proprio palcoscenico, come a metà ‘800 quando qui davanti si celebravano i riti della Settimana di Passione, culminanti nel Venerdì Santo: preghiere, litanie, meditazioni e lamentazioni funebri, ma anche musiche. La data di esecuzione è ignota ma si ipotizza il 1858, fin dal restauro condotto nel 2003 da «Italia Nostra»: in quell’occasione la presidente Marcella Vitali collegò l’opera alla pratica devozionale de Le tre ore dell’agonia di Gesù Cristo, di origine gesuitica, ideata in Perù dal padre Alfonso Messia, portata prima in Spagna poi a Faenza e messa in scena appunto a partire dal 1858. Ironia della sorte, appena un anno dopo i Gesuiti lasciarono Faenza per via delle soppressioni sabaude e la chiesa fu chiusa al culto. La «macchina di Liverani» venne riscoperta in seguito, non si sa quando: probabilmente da don Antonio Savioli, architetto e profondo conoscitore d’arte che fu cappellano in questa chiesa e fece eseguire la foto dell’ultimo allestimento risalente al 1950; di certo l’opera era nota anche all’ultimo parroco, don Giuseppe Piazza, che la protesse malgrado le difficoltà dovute alle anomale, colossali dimensioni: oltre 11 metri per 9!
La scenografia, incredibilmente su carta e in tre distinte «quinte», riproduce lo scenario della Crocefissione ma senza persone, con al centro il sepolcro, isolato fra rocce, palme, agavi, architetture arabe ed egizie, un’improbabile Gerusalemme con piramidi e moschee (simile a quella del presepe Zucchini, sempre del Liverani, al Mic), ponti e cascate e infine un Golgota che ricorda il Vesuvio più che la Palestina; il tutto con un inquadramento di illusionistici tendaggi.
Negli spazi di Santa Maria dell’Angelo, Gardini ha sapientemente accostato l’opera ad altre, creando una suggestiva mostra che giustifica il titolo di Anastasis. Oltre la notte: a precedere il grandioso dipinto liveraniano sono tre Compianti sul Cristo Morto: quello cinquecentesco da Santa Croce in Brisighella, di ignota mano popolare romagnola o toscana, quello «delle putaske» del grande Ilario Fioravanti, sempre in terracotta e infine quello contemporaneo di Daniela Novello, in legno e piombo, ad evocare le tragedie dei migranti naufraghi nel Mediterraneo.
«E’ un omaggio agli ultimi - spiega Gardini -, com’era avvenuto nella Natività quando ad arrivare alla Capanna erano stati i pastori più umili. Per questo abbiamo anche inserito un crocefisso acefalo, in legno di noce, di Nicola Samorì, l’impressionante Testa del Crocefisso dal museo Diocesano (recuperata così, mutila e martoriata, nel 1944 tra le macerie del campanile dei Servi), un Cristo di Georges Rouault degli anni ’40 e infine i commoventi Sonnambuli di Lucia Nanni, ispirati a ritratti di camposanti e realizzati con il solo filo della macchina da cucire lasciato poi penzolante. Infine il restaurato Noli me tangere del settecentesco faentino Francesco Bosi e il Compianto di Antonio Violetta nella sacrestia».

Inaugurazione sabato 11 marzo alle 18; aperto da mercoledì a domenica 10-12.30 e 16.30-19; ingresso libero.
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