Faenza, Paralimpiadi, Tokyo nel mirino di Cappelli: «Premiati nove anni di duro lavoro»

Romagna | 17 Luglio 2021 Sport
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Tomaso Palli - «L’Olimpiade è l’ambizione di ogni sportivo». Non servono giri di parole a Jacopo Cappelli per spiegare cosa significa partecipare ai Giochi Olimpici. Lui, tiratore faentino classe 1987 affetto da osteoporosi aggravata congenita, farà parte della spedizione azzurra paralimpica nel tiro a segno. A Tokyo, dal 24 agosto prossimo, per la sua seconda volta dopo l’esperienza a cinque cerchi di Londra 2012.
Cappelli, il pass per Tokyo 2020 è arrivato all’ultimo. Ha avuto paura non riuscirci?
«Sì, la paura era tanta perché arrivare a quel punto significava che prima, forse, qualche cosa non era andata al meglio. E poi ho avuto anche un po’ di sfortuna nella disposizione delle gare: le due della mia specialità era per prime mentre, se fossero state per ultime, la probabilità sarebbe stata maggiore con già molti pass assegnati».
Sarà la sua seconda Olimpiade dopo Londra 2012. Come si affronta?
«Ho già alle spalle Londra ma non quella di Rio, questa qualificazione è il coronamento di un lavoro di nove anni, visto anche quello in più causa Covid. Credo che l’Olimpiade sia l’ambizione di ogni sportivo che arriva a questo livello: avrò altre possibilità in futuro ma è sempre molto bello sapere di poterci essere».
Cosa si aspetta dalla sua Tokyo 2020?
«Sarà un’emozione indescrivibile, come fu Londra. Ma nel 2012 ero incosciente, ancora immaturo mentre ora è diverso anche grazie al fatto che ci siamo appoggiati alla Federazione dei normodotati, l’Uits (Unione Italiana Tiro a Segno, ndr). Ora è tutto più professionale con grande attenzione ai dettagli, alla preparazione fisica e mentale. Da quando siamo uniti, abbiamo fatto notevoli passi in avanti».
E quali sono i tuoi obiettivi?
«Non penso di poter avere ambizioni di medaglia: è come il centometrista nei normodotati che andava alle Olimpiadi sperando di battere Bolt, impossibile! Ma sicuramente andrò a Tokyo per mostrare ciò che so fare e giocarmela al massimo delle mie potenzialità, senza paura e per non chiudere la classifica».
Ma quanto dura la carriera di un tiratore paralimpico?
«Abbiamo esempi molto longevi con tiratori capaci di arrivare anche a più di 50 anni. Parliamo di campioni con vittorie alle Olimpiadi che, nonostante un calo fisico, restano competitivi. Ma nel mondo paralimpico la longevità dipende molto dalla salute e dal tipo di malattia».
C’è molto gap rispetto ai normodotati?
«Non tantissimo. Ma è dovuto, oltre ad una differenza di postura e posizionamento nello sparare, anche dai numeri: noi siamo forse il 5% dei normodotati che sparano nel mondo. E così, per forza di cose, il loro livello è più alto. Non vale per tutte le specialità ma chi vince un’Olimpiade da noi, potrebbe tranquillamente partecipare e competere con i normo».
Ora un passo indietro: quando si è avvicinato a questa disciplina?
«Ho sempre avuto la passione per le armi anche grazie al nonno cacciatore ma frequento il poligono dal 2000, avevo 13 anni. Sono stato spinto dalla mia società sportiva dove facevo nuoto e riabilitazione. Ma la svolta è arrivata quando alcuni miei problemi fisici sono migliorati con la crescita e mi hanno cambiato la classificazione».
Ci spieghi.
«Fisicamente ero messo molto peggio rispetto ad ora. Ero obeso, non mi muovevo e mi avevano inserito nella categoria con chi ha problemi anche agli arti superiori (Sh2, ndr). Non era molto esaltante e me la sentivo stretta. Fortunatamente ho avuto uno sviluppo fisico importante che mi ha portato molti miglioramenti: ho iniziato a sparare seriamente divertendomi solo dal 2006 quando sono passato a Sh1 (disabilità solo agli arti inferiori, ndr). E da lì sono arrivati anche i risultati».
Come concilia lavoro e allenamenti?
«Ho la fortuna di avere un lavoro part-time e così riesco ad allenarmi tre volte a settimana con sessioni anche da due ore e mezza. A queste serve aggiungere il viaggio per andare a Bologna dove è presente l’unica struttura con bersagli elettronici, quelli che poi si utilizzano dal 2012».
Torniamo all’Olimpiade: come procede la marcia di avvicinamento a Tokyo 2020?
«Con un lavoro di mantenimento fisico e mentale senza andare in sovrallenamento. Sono le uniche cose possibili, insieme al riposo, per non arrivare a Tokyo in un periodo di scarico».
Come è cambiato, negli ultimi anni, il vostro movimento?
«È molto migliorato sotto tanti punti di vista. Sia a livello di prestazioni che di promozione. Anche se, in quest’ultima, si è un po’ rallentato dopo l’unione all’Uits che, probabilmente ha puntato di più sulla prestazione ad alti livelli».
In che senso?
«Da quando siamo con l’Uits, il nostro livello si è sensibilmente alzato ma probabilmente è stata trascurata un po’ la promozione ed alcune attività collegate. Ora, se fai riabilitazione, non c’è più l’obbligo di appartenere ad una società sportiva, ti iscrivi in piscina e sei libero. Se fosse stato così ai miei tempi, probabilmente, nessuno mi avrebbe spinto ad iniziare questo sport».
Il suo è uno sport individuale ma siete anche un gruppo, una vera e propria squadra?
«Siamo una squadra molto affiatata. E tutti abbastanza amici. È una bella cosa ma anche normale per il tempo che passiamo insieme e perché in numero limitato: ai campionati italiano siamo una quarantina, dieci della nazionale. Inoltre, da quando siamo sotto l’Uits, abbiamo un centro federale a Bologna che permette i raduni una volta al mese e non più tre o quattro l’anno».
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