Faenza, Gene Gnocchi racconta l’Italia dei social, della pandemia e del «gusto Puffo»

Romagna | 16 Aprile 2021 Cultura
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Federico Savini
«Non tutti lo sanno, ma i California Dream Men hanno aperto una sezione Over 60. Appena l’ho saputo naturalmente ho fatto il provino. E in questo nuovo libro vi racconto com’è andata». Si chiama Il gusto Puffo (editore Solferino) il nuovo libro di Gene Gnocchi, una raccolta di racconti «deliberatamente comici», come si perita di definirli l’autore, poliedrico artista che solo per comodità definiamo «comico» e che da qualche anno risiede a Faenza. A questo giro Gnocchi ci tiene particolarmente a sottolineare la qualità letteraria dei suoi scritti e ne ha ben donde, fermo restando che il suo stile stralunato e la sua fantasia inclassificabile dominano le pagine e i racconti di personaggi bizzarri come l’inventore della legge che impone agli artisti di far posare le modelle solo vestite, con il loden, oppure l’uomo che vuole adottare un bambino a distanza ma non sa quale sia la distanza minima, per tacere del genero che per non dover portare la suocera al mare decide di farle rompere il femore da una banda di criminali. E poi c’è, naturalmente, la vicenda umana e imprenditoriale dell’inventore del famigerato gelato al gusto puffo. «Ne racconto la vera storia - dice Gnocchi - e in particolare il titanismo che si svela nell’ossessione di voler morire senza lasciare a nessuno la ricetta del gusto puffo».
Però, dica la verità, lei quante volte l’ha assaggiato il gusto puffo?
«Beh, almeno un paio direi di sì. Quando hai dei bambini è praticamente obbligatorio, una specie di tassa che prima o dopo ti tocca»
Ma si trova nelle gelaterie di Faenza?
«Io l’ho cercato e non l’ho trovato, credo sia proprio diventato rarissimo. Ma per promuovere il libro vorrei farmi una foto con una bella vaschettona di gelato al puffo. E infatti su internet ho trovato un gelataio veneto che sta cercando il modo di mandarmene una bella fornitura».
Il libro è incentrato su personaggi che «sopravvivono a sé stessi». In che senso?
«Di fatto è un libro di racconti, nei quali certamente emergono figure di personaggi sui generis. Attraverso le loro storie cerco, in modo divertente, di tracciare uno spaccato del nostro Paese, raccontando di molti aspetti legati alla pandemia ma anche di altro. Ad esempio è stato anche un periodo di primi bilanci per i grillini, la grande novità della politica italiana, infatti nel libro c’è anche un deputato grillino che cerca di raccontare agli italiani cosa ha fatto per il Paese in questi anni».
I social c’entrano nel processo antropologico che «crea» questi personaggi?
«Beh, l’egocentrismo è sempre più centrale nella nostra esistenza, fa quasi parte del paesaggio. Sono abbastanza esplicito su questo tema nel libro. Il cosiddetto storytelling ci condiziona, il guardarci e riguardarci ormai è un dato fondamentale del nostro vivere quotidiano. Non parliamo poi del politically correct, che ci ha davvero snaturato in questi tempi. Ci tengo però a dire che se è vero che i social condizionano la nostra vita, io ho cercato di lasciarli fuori dal processo di scrittura. Il libro è deliberatamente comico ma il modello è letterario. È importante che la pagina sia scritta bene, che abbia “aria”, che ci sia insomma attenzione alla scrittura in quanto tale, con qualunque tipo di contenuto».
E la pandemia quanto ha influito sul libro?
«Uno dei racconti più divertenti esamina l’unico e solo lato positivo della pandemia: la scorsa estate ha impedito l’arrivo dei cantanti spagnoli! Normalmente, verso aprile e maggio cominciavamo ad essere assaliti dai tormentoni che ci tartassavano i timpani a suon di Te vas con migo, Te quiero mas, Corazòn e così via. Ogni anno, già in aprile, pregustavamo un’altra estate di merda! Poi, certo, quella del 2020 non è certo stata la stagione migliore di sempre, ma almeno i tormentoni spagnoli vacanzieri ce li siamo risparmiati…».
Come vive le restrizioni?
«Quelle non piacciono a nessuno ma il Covid è una cosa seria, assolutamente drammatica, che mi ha toccato da vicino. Io ho perso più di un amico in questi mesi, gente con cui giocavo a calcio da ragazzo, che non ho mai smesso di sentire, che stava bene di salute e nel giro di due settimane se n’è andata. Ogni volta che sento minimizzare questa malattia, sinceramente, mi vengono i brividi. Quindi io cerco di stare alle regole, non ho neanche mezzo dubbio su questo. Poi è senz’altro vero che per chi lavora nello spettacolo il momento è durissimo. Io ho la fortuna di riuscire a fare un po’ di televisione ma gli spettacoli dal vivo, anche per me, sono fermi da oltre un anno. Il problema è che non c’è una strategia di lungo periodo sulle riaperture, si naviga troppo a vista. L’anno scorso chiudemmo tutto per riaprire in estate e tutto sommato qualche risultato ci fu. Poi c’eravamo attrezzati per l’autunno ma si è chiuso di nuovo, sperando nel Natale. Ma anche lì niente e lo stesso copione si è ripresentato per Pasqua. Questo continuo rimpallare le aspettative crea grande frustrazione e lascia l’impressione che davvero non si sappia come gestire questa emergenza. Ora sono arrivati i vaccini, tra l’altro in tempi record, ma il fatto che non ne arrivino abbastanza lascia francamente basiti. Non pretendo che la campagna vaccinale di massa sia una cosa semplice, ma non ci si può stupire del fatto che la gente protesti e che la frustrazione cresca, nonostante l’esistenza di uno e più vaccini».
Chiudiamo col calcio. Quello pandemico, quanto è paragonabile a quello classico?
«Il calcio pandemico è pazzesco, non ci sono altri aggettivi. Il primo effetto è assolutamente comico, perché con gli stadi vuoti si sentono tutte le bestemmie a bordo campo e questo dà la misura del grado di religiosità dei calciatori… Diciamo che in questa situazione un’annata e mezzo di calcio si è completamente alterata. Il Covid cambia le partire, la settimana scorsa il Sassuolo è sceso in campo senza otto giocatori! Una cosa che rende lo scenario anche più grottesco è l’assenza di un protocollo unico, così ogni Asl regionale può cambiare la situazione. Su queste cose serviva univocità, altrimenti si decide, in piena legittimità, che la priorità è sanitaria e se ne traggono le conseguenze. Muoversi in un ibrido nel quale comunque si cerca di preservare il campionato, ma poi si resta intrappolati nelle logiche di ogni singola Asl, con polemiche su presunti accordi fra le squadre e i distretti sanitari che spuntano di continuo, è un compromesso che alla fine scontenta tutti».
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