Capitale europea della cultura: «Se Ravenna non si fosse candidata sarebbe una città peggiore»

Romagna | 13 Gennaio 2019 Cronaca
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Come sarebbe oggi, Ravenna, se fosse stata proclamata Capitale europea della cultura, titolo che si è aggiudicata, per il 2019, Matera? Sarebbe una città più bella, più ricca? Quali occasioni sono state perse, o al contrario colte, dal percorso di candidatura? Lo abbiamo chiesto ad alcuni dei protagonisti dello staff di Ravenna 2019, l'ufficio coordinato da Alberto Cassani, che dopo quell'esperienza oggi lavora all'assessorato al Turismo della Regione Emilia-Romagna. Oltre a Ravenna, hanno dovuto rinunciare al titolo anche Cagliari, Lecce, Perugia e Siena.

CARBONI: «NON SAREMMO QUELLO CHE SIAMO OGGI»
«Ravenna 2019 rappresenta un pezzo importante del mio percorso di vita e professionale. Dopo essermi formata e aver lavorato fuori, tornare nella mia città con un progetto di rilevanza pubblica era per me l’opportunità di poter contribuire allo sviluppo della mia terra natale, mettendo a frutto le competenze e la professionalità acquisite in tanti anni di esperienze in giro per l’Italia e all’estero». Nadia Carboni, politologa ed ex ricercatrice dell'Università di Bologna, oggi dirigente del Servizio promozione territoriale dell'Unione dei Comuni della Bassa Romagna, conserva bellissimi ricordi legati alla candidatura, che l'ha vista lavorare come project manager: «Ravenna 2019 è stata senza dubbio una impresa collettiva: noi dello staff abbiamo lavorato tutti i giorni per coinvolgere artisti, cittadini, imprenditori, volontari, giovani, in un percorso che rendesse tutti partecipi di un ambizioso obiettivo indirizzato a creare una visione della città del futuro partecipata, condivisa e innovativa. Giorno dopo giorno Ravenna 2019 è entrata nell’immaginario collettivo e questo è già stato, a mio avviso, un successo. Ciascuno a suo modo - anche chi con approccio critico - ha contribuito a una esperienza che rimarrà credo, per le sue caratteristiche, unica per questa città». Nonostante il secondo posto ottenuto su 21 città partecipanti, secondo Carboni avere sfiorato la vittoria è stata una delusione per tutti: «Personalmente ho sempre fatto mio l’approccio di radice culturale americana per il quale chi fallisce è chi ci ha provato. E come ho ripetuto tante volte, sia prima che dopo la fine del progetto di Ravenna 2019, indipendentemente dal risultato Ravenna non sarebbe quello che è oggi se non avesse vissuto l’esperienza della candidatura. E ora che al 2019 ci siamo arrivati davvero, guardando alle trasformazioni che ci sono state da allora, prima fra tutte la Darsena di città, mi sento di dire che ci sono semi che hanno trovato coltivazione. Non intendo solo in termini di progetti di candidatura realizzati o meno (alcuni sono stati in effetti portati avanti, altri abbandonati, altri ancora si sono trasformati) ma soprattutto in termini di approccio allo sviluppo del territorio. Il 2019 ha attivato processi, diffuso nuove metodologie e prassi di lavoro, creato sinergie e collaborazioni tra enti, associazioni e organizzazioni del territorio che prima non esistevano. Una mobilitazione di energie sulla città che in fondo non si è persa negli anni e che ha reso Ravenna  più viva, più aperta, più fertile all’innovazione e al cambiamento rispetto al passato. E probabilmente il motore del 2019 ha dato spinta e qualche stimolo in più alla città  per affrontare  questi ultimi anni rivelatisi non facili per il nostro paese in generale». Quando pensa a come sarebbe stata Ravenna Capitale della Cultura, Carboni non ha dubbi: «Non molto diversa da quella che è oggi, sono sincera, se non con un respiro più internazionale e ancora più votata all’innovazione. Anche se il valore aggiunto sarebbe stato soprattutto in quella energia e in quella intelligenza collettiva verso un unico grande obiettivo, insieme a un sentimento e una visione comuni, che solo un progetto di questo  tipo è in grado di mettere in campo, come in fondo abbiamo  sperimentato durante gli anni della candidatura».
 
PANEBARCO: « MOLTISSIME IDEE IN CIRCOLO»
Oltre a lavorare come oggi nell'azienda di famiglia, la Panebarco & C., Marianna Panebarco alla fine del 2010, quando venne nominato il comitato artistico organizzativo di Ravenna 2019, era presidente dei Giovani Imprenditori di CNA Ravenna, per poi diventare quattro anni dopo presidente Giovani CNA Emilia Romagna: «L'idea di costruire insieme, in tanti, in maniera partecipata e condivisa, un progetto grande per la città, è stato molto stimolante, sia dal punto di vista personale che professionale. Ci ho creduto molto, e la mia reazione ben si spiega con la foto finita in prima pagina sull'edizione ravennate del Corriere di Romagna il giorno dopo la mancata vittoria, che mi ritrae in lacrime». In ogni caso, secondo Panebarco il lavoro e gli sforzi fatti nel percorso che ha portato fino al giorno della selezione è servito molto alla città: «Ha messo in moto energie e idee e ha messo in rete tante persone, e questa è sempre un'ottima cosa, perché le relazioni sono alla base di tutto. Ovvio che il titolo ci avrebbe dato una grande visibilità a livello internazionale, avrebbe velocizzato probabilmente alcuni processi (e lavori infrastrutturali necessari), e attratto o comunque incoraggiato investimenti di privati, penso per esempio a tutto il processo di riqualificazione della Darsena che in massima parte è proprietà di privati». Ma la cosa più grande e preziosa che secondo Panebarco avrebbe dato una maggior fiducia alla città e al potenziale del territorio è un approccio più ottimista e aperto al nuovo: «Ritengo che questo sia un elemento di cui siamo un po' carenti noi ravennati e che invece farebbe tanto bene a questa nostra bella città; purtroppo è rara la voglia di lanciarsi in progetti innovativi, di fare un passettino fuori dal seminato, di mettersi in gioco. Con questo non voglio dire che non ci siano esempi di piccoli e grandi imprenditori, artisti, professionisti ravennati che ce l'hanno fatta e che tutti i giorni scommettono in nuove sfide, ma ce ne sono troppo pochi. Dobbiamo incrementare il tasso di imprenditività per avere una città che morda con più decisione il futuro e non a caso uso il termine imprenditività, perché imprenditività è un approccio che può e deve essere di tutti, non solo di chi ha un'attività in proprio)». Tra i progetti del dossier di candidatura non ce n'è uno che Panebarco avrebbe voluto realizzare in particolare: «Ci sono tantissimi progetti belli e affascinanti e non mi va di citare questo o quello, anzi penso che forse, ciclicamente dovremmo andare a ripescarne uno o due e provare a metterli in piedi. Cito però, in rappresentanza di tutti i progetti, uno strumento di avvicinamento al 2019: l'idea di nominare Palazzo Rasponi La Casa dell'Europa, e di farlo diventare un luogo aperto e di sperimentazione per attività partecipate».
 
DONATI: « TRASFORMAZIONE AVVIATA MA PROCESSI  FERMI»
Lavorava come giornalista ed educatore in ambito teatrale, Lorenzo Donati, quando entrò a far parte dello staff di Ravenna 2019. Oggi è un ricercatore universitario al Dams di Bologna e gli capita spesso di ripensare a come sarebbe cambiata Ravenna se avesse vinto il titolo di Capitale: «Credo che la sfida di dare avvio a una città aperta e propensa a incontrare l'altro e il diverso sia sia, nei fatti, fermata. La nostra era una provocazione alle istituzioni anche in senso decisionale: pensavamo alle trasformazioni come frutto di processi collaborativi e partecipativi, come è stato fatto alla Darsena. Dispiace vedere che quel modo di fare politica non sia continuato». Ciò nonostante, secondo Donati la candidatura ha fatto bene a Ravenna su altri versanti: «L'idea di un tessuto culturale che riesca a viversi come una collettività e non più come una serie di soggetti a se stanti credo sia atticchita, così come la voglia di lasciare segni tangibili. Penso per esempio alla street art: il grande murale di Ericailcane è stato il primo a essere realizzato, dando inizio a una serie di esperienze che continuano tutt'oggi. Sono convinto, tutto sommato, che Ravenna sia cambiata in meglio, anche se alcuni processi sono monchi».
 
 
 
 
 
 
 
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