«Fiordicotone» di Paolo Casadio racconta l’epopea post-bellica di una donna reduce da Auschwitz

Romagna | 23 Gennaio 2022 Cultura
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Federico Savini
«Ho cercato di rendere la mia penna più leggera possibile, quasi fosse un acquerello. E questo proprio perché si parla di tragedie e dolori indicibili. Il rispetto che ho per chi ha subìto così tanto mi fa capire che forse non ho il diritto, né la reale possibilità di immedesimarmi, ma sento il dovere di ricordare e tributare la loro memoria, in un mondo che sembra considerare queste cose sempre più come optional». Paolo Casadio è prima di tutto una persona sensibile. L’aveva dimostrato ne La quarta estate e ne Il bambino del treno, e lo dimostra nuovamente con Fiordicotone (Manni), che torna a raccontare la Guerra da una prospettiva insolita e rispettosa. Se nel primo libro la si raccontava «da lontano» e nel secondo il «prima» (e poi lo stravolgimento che ne consegue), questa volta Casadio sceglie di raccontare il «dopo», ossia il ritorno a casa, in una Lugo stravolta, di una donna ebra sopravvissuta quasi per miracolo all’inferno d Auschwitz. «La paura di banalizzare una cosa come la Shoah mi ha portato a concentrarmi sul ritorno a casa di Alma, la protagonista - spiega Casadio -. Una donna che ha perso tutto tranne una figlia, che cerca di ritrovare in ogni modo. Quest’ultima è una cosa in cui mi posso immedesimare, ma l’uso stereotipato e assolutamente strumentale della stella di David che abbiamo visto di recente è qualcosa che non avrei mai voluto vedere».
L’immedesimazione romanzesca, comunque, in «Fiordicotone» convive con la ricerca storica…
«Sì, per me è fondamentale. Non scrivo saggi ma mi documento molto, specialmente sui giornali d’epoca, che mi aiutato ad affiancare la “storia minuta” alla “grande storia”. I prezzi della carne razionata o gli attraversamenti del Po vengono tutti da cronache reali. Dei campi di sterminio, come detto, non mi sento di parlare ma forse posso immaginare i sentimenti di chi sopravviveva, e addirittura certe volte lo faceva con il senso di colpa di essere l’unico della famiglia a tornare a casa. Inoltre i sopravvissuti si chiudevano spesso in loro stessi, sapendo di non venire creduti. Tutti pensavano a campi di lavoro, duri certo, ma non disumani come poi si è scoperto. Oltre al dolore e alle perdite, chi sopravviveva doveva sopportare anche l’alienazione».
Con «Il bambino del treno» c’è in comune il trauma di un mondo bruscamente mutato…
«È presente in tutti i miei libri, e lo sarà anche nel prossimo. In Fiordicotone c’è un prete che ‘taglia’ le omelie per arrivare al dunque, a quella ‘benedizione’ che le signore aspettano, sperando che serva a mantenere tutto uguale. Ci affezioniamo al mondo che conosciamo proprio, e spesso solamente, perché lo conosciamo. Ci basta questo per sentirci sicuri. A maggior ragione, l’esperienza di un campo di concentramento dev’essere a dir poco traumatizzante. La protagonista di Fiordicotone, poi, era una delle rare donne ebree impiegate nei bordelli delle SS, quindi la sua storia è ancora più difficile. Senza contare che, come donna, ha patito due volte: come persona e appunto come donna, in un mondo terribilemente maschilista».
Ma c’è un interesse particolare anche per quel periodo storico?
«Certo, l’immediato Dopoguerra è stato un periodo particolarissimo e poco indagato. Dopo la Liberazione, gli Alleati non avevano un progetto preciso per ricostituire istituzionalmente e amministrativamente il Paese; così, dovettero rimettere al loro posto chi già prima conosceva la macchina amministrativa, ma erano persone colluse col fascismo! Questo ingenerò una serie di vendette e regolamenti di conti che riempiono i giornali di allora. Il che aggrava uno scenario già dominato dalla difficoltà quotidiane che racconto in Fiordicotone, e in un quadro storico-politico che velocemente si riassesterà, sbarazzandosi delle macerie del passato prossimo con l’introduzione di un nuovo nemico: il comunismo. Io ho cercato di essere neutro, ma probabilmente in quel genere di contesto, se avessi avuto la possibilità di vendicarmi l’avrei fatto. La sensibilità odierna ci mette un attimo a derubricare ad “assassini” molti uomini che hanno vissuto in quei giorni agitati, ma io credo che noi non possiamo giudicare qui tempi, non abbiamo la capacità, l’autorità e il diritto per farlo. Quello che accadde su conseguenza della dittatura, la “reazione uguale e contraria” della termodinamica».
C’è un altro libro pronto?
«La seconda parte de La quarta estate è in avanzata fase di sviluppo. La protagonista di quel libro tornerà nei pressi di Salò in periodo repubblichino, lavorando presso lo stabilimento bellico della Fiat. Racconto la forza di protagoniste femminili in omaggio a mia madre e alla forza incredibile che tante donne riescono ad avere. Magari anche insieme alla fragilità».

Paolo Casadio presenterà il libro sabato 22alle 10.30 alla biblioteca di Castel Bolognese, domenica 23 alle 16.30 alla Rocca di Bagnara, giovedì 27 alle 17.30 alla biblioteca Trisi di Lugo, venerdì 28 alle 17 al Bosco Baronio a Ravenna, sabato 29 alle 17.30 alla Bottega Bertaccini di Faenza con Roberto Matatia.
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