Scrittore e giornalista Nevio Galeati ci racconta una storia, tra mito e fantascienza

Ravenna | 03 Maggio 2020 Cultura
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Ostaggio in terra straniera

Le capsule sono pronte e il comandante Waw continua a camminare dall’una all’altra con impazienza. I probiviri sono ancora riuniti con l’ufficiale di collegamento: tira brutta aria, per lui. Sono nella camera di contenimento, sistemata ai piedi della collina, sotto le fortificazioni di marmo e basalto che cingono la città: l’ha studiata dall’alto, prima di far scendere in avanscoperta la prima squadra. È un agglomerato di edifici primitivi, attorno ad alcune strutture con scelte architettoniche più curate. Molto massicce però, come le mura e le torri di guardia; se di quello si tratta. Una concezione difensiva vecchia di millenni. Una manciata di positroni, rilasciata a bassa quota, può radere al suolo tutto in un batter di ciglia. Quindi l’equipaggio non corre alcun pericolo e le armi leggere sono sufficienti.
Waw riflette su quanto è accaduto: Ajin, addetto alla comunicazione e al registro di bordo, ha combinato un pasticcio. Si è fatto vedere e adesso devono valutare che provvedimenti prendere. E in fretta: il varco dal quale sono entrati in quel quadrante dello spazio può chiudersi da un momento all’altro e l’accordo è di non modificare il corso degli eventi.
Samekh, responsabile dei probiviri, ha alzato la voce perché Ajin è uscito sul pianoro e cammina verso il mare. Inconcepibile! Un ufficiale non può comportarsi in quel modo; e potrebbero vederlo dalle torri. Anche Mem e Nun escono dalla camera di contenimento, furiosi, e seguono Ajin. Il comandante Waw sa che deve intervenire, prima che succeda qualcosa di irreparabile. Raggiunge l’ufficiale e allarga le braccia; il subordinato esita mentre l’aria sembra liquefarsi, rallentando i movimenti. Non vorrebbe punirlo senza sapere cosa abbia detto ai tre anziani di viaggio, ma deve fermarlo. Gli impone le mani sul capo, poi gli copre gli occhi. Ajin si inginocchia e inizia a piangere.
Samekh, Mem e Nun lo raggiungono. È il secondo a raccontare: l’ufficiale non solo si è fatto vedere, ma ha incontrato una femmina del popolo che vive dietro le fortificazioni. Le ha chiesto di fuggire con lui, promettendo di portarla lontano da quella terra, al di là delle acque e delle stelle. Il comandante sa quanto Ajin possa essere seducente e persuasivo; deve essere apparso circonfuso di luce, quasi un dio.  
Non ci sono molte vie d’uscita: o si elimina la femmina che l’ha incontrato; o l’ufficiale viene abbandonato al proprio destino, con lei. Dovrà creare un proprio tempo lì, senza poter incontrare la propria gente.
Nun, intanto, è irrequieto. Poi sbotta. Doveva essere una missione semplice: avevamo l’incarico di raccogliere dati, immagini, non guai. E non potevano esserci guai, abbiamo studiato questo posto, che è fragile. Un sospiro del nostro trasporto principale e lo possiamo polverizzare. Invece no: questo Ajin si è intromesso, ha cercato di comunicare.
Non è il suo ruolo?, lo interrompe Waw, cercando di frenare la sfuriata.
No, non lo è, interviene Samekh. Il tuo Ajin deve solo aiutare noi a viaggiare, a scoprire varchi per conoscere l’universo, a ritrovarli per tornare indietro. Ora l’attacco è diretto al comandante della spedizione, non al suo ufficiale. Waw, fa capire il responsabile dei probiviri, si sta dimostrando incapace di gestire quel viaggio.
Non dissolvete la femmina che ho incontrato… I quattro si bloccano: è Ajin che li implora, senza alzare la testa. Lei, aggiunge, voleva in ogni caso uscire da quelle mura e andarsene; mi ha chiesto aiuto per attraversare il mare e raggiungere un’altra città. Sono un ufficiale di collegamento: come facevo a dire di no? Se avete pensato ad altro, siete caduti in errore. Ma sono disposto a pagare, per lo sbaglio che ho commesso: non dovevo farmi vedere.
Waw non vuole ricordargli quale sia la sanzione prevista per quell’infrazione.
E so cosa mi sta per capitare, se non lo hai già fatto poco fa, comandante. Ajin solleva il capo: gli occhi sono chiusi. Lo saranno per sempre. Adesso, conclude l’ufficiale, credo che una risposta mi sia dovuta.
I probiviri gli voltano le spalle e tornano alla capsula: tocca al comandate decidere; Ajin si è costituito, dimostrando che avevano ragione loro tre. Waw sa che dovrà sistemare anche questa situazione. Forse prima di ripartire.
D’accordo Ajin, lasciamo vivere questa femmina il poco tempo che le resta; e tu sarai il suo ostaggio. Un peso forse insopportabile, viste le tue condizioni. Attraverserete però il mare con i vostri mezzi. Non voglio più interferire con questo mondo. Ho visto, però un piccolo vascello nero, attraccato a una roccia… Addio.
In pochi istanti le capsule spariscono dal suolo. Dal bosco di querce esce una giovane femmina, bellissima; raggiunge Ajin e, insieme, salgono sul guscio di noce per lasciare anche loro quella terra. Quando la riva è sparita all’orizzonte, l’ufficiale di collegamento inizia a raccontare una storia.
“Canta, o dea, l’ira d’Achille Pelide, / rovinosa, che infiniti dolori inflisse agli Achei”.

Note
I due versi delle ultime righe sono tratti dalla versione dell’Iliade di Rosa Calzecchi Onesti, Einaudi, 1950.
Fra le possibili etimologie di ὅμηρος (hómēros) c’è anche “ostaggio”.
I nomi dei protagonisti sono la traslitterazione in ebraico di lettere dell’alfabeto greco antico.
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