Mauro Monticelli racconta il rinnovato festival «Arrivano dal mare»

Ravenna | 22 Settembre 2018 Cultura
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Elena Nencini
La baracca, i burattini, le storie di Arlecchino e Colombina, il fascino del racconto e la magia della storia: roba da bambini? No, assolutamente, a Ravenna la tradizione ‘forte’ portata avanti dalla famiglia Monticelli con il teatro del Drago è rivolta ad adulti e bambini ed ha creato una rete di realtà che trova nel festival «Arrivano dal mare» una sua istituzionalità e cerca anche di parlare di futuro. Il festival - che si aprirà a Ravenna da venerdì 21 e proporrà spettacoli, incontri e mostre fino al 30 settembre, da Cervia, a Longiano a Gambettola – è anche l’occasione per fare il punto sul mondo di burattini, marionette, e tante altre forme artistiche come le ombre, i pupazzi e gli oggetti e che vanno sotto il nome di Teatro di figura. All’interno del programma del Festival, curato dal Teatro del Drago, ci saranno sia 8 giorni di workshop sul mondo dei burattini, ma anche l’occasione per guardare al futuro con Adunanza Burattineide (sabato 29 a Gambettola) per ascoltare le voci di chi questo mestiere lo fa da tanti anni. Sul territorio di Ravenna sono tanti i nomi di chi lavora con il teatro di figura, tra cui Massimiliano Venturi, Vladimiro Strinati, Drammatico Vegetale, Tanti Cosi Progetti, Allincirco, Stefano Giunchi.
E’ Mauro Monticelli, uno dei direttori artistici del Teatro del Drago, a raccontare cosa sono i burattini: «Oggi in Italia sono quella parte di mestiere di teatro di figura che tutti i teatranti dovrebbero praticare almeno per un po’ perché ti insegna a prendere il ritmo, le tempistiche necessarie».
Perchè?
«Quando manovri i burattini sei dietro a un paravento, non vedi il pubblico, allora devi sviluppare gli altri sensi per capire qual è l’umore del pubblico, se piace, se ride, se lo spettacolo funziona. Tu stai recitando e devi immaginare il pubblico. Ti affidi all’udito. Anche a fare l’aiutante di baracca, soltanto guardando, riesci ad appropriarti di tecniche ampiamente collaudate e preziose».
Qual è la situazione nel resto di Italia?
«Siamo considerati un po’ l’ultima ruota del carro fra le arti, c’è un momento di crisi, ma in Italia in tutte le regioni ci sono nuove leve, ci sono maestri degni di nota. Non è una situazione disperata, hanno sempre detto che è un mestiere che sta scomparendo, ma non è vero. Sono desolato invece che oggi i giovani genitori non abbiano conoscenza delle maschere: non sanno chi è il dottor Balanzone, Pulcinella, Colombina, Fagiolino. Quando chiedo ‘Chi è Arlecchino?’ mi rispondono ‘Una maschera di Carnevale?,’ non sanno la storia del suo vestito, del suo nome. Il nostro è un mestiere antico ma ‘interattivo’, fa parlare i bambini, il pubblico. Li fa interagire».
Perché i burattini colpiscono in questo mondo tutto digitale?
«Il digitale è una grande maleducazione: entri nei teatri e vedi 100 telefoni accesi prima e durante lo spettacolo. Noi non abbiamo inventato nulla: il mestiere ce lo hanno insegnato in famiglia, è un teatro ‘alla Jarry’ perché il burattino parla, dice quello che vuole, così lo spettatore si sente coinvolto in prima persona. Il burattino ‘pretende’ che il pubblico gli risponda, si immedesimi, mantenendo sempre una qualità artistica. Io tendo a mantenere un’impostazione tradizionale nei miei spettacoli, non mi piace modernizzarli con una musica più moderna. Sono un conservatore: liscio romagnolo e musiche folk tradizionali».
Un augurio al mondo dei burattini?
«Vorrei che venisse considerato molto di più a livello istituzionale, un sostegno maggiore dal Ministero, anche se già hanno fatto tanto. Sarebbe necessaria una collaborazione con l’Università in maniera da approfondire gli aspetti della ricerca. Vorrei che arrivassero nuovi giovani, che facciano un teatro moderno, con più comminstione tra le diverse arti».
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