«Io accusato di falsità, baratteria, frode? Il mio più grande cruccio» di Riccardo Guffi – 2G dell' I.C. Nelson Mandela (Crema)

Ravenna | 27 Dicembre 2021 Dante700
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Illustrissimo Dante Alighieri, ritiene di essere un grande poeta e letterato o si sente più a suo agio nell’investire cariche prestigiose in politica?

«Sono nato nel 1265 a Firenze, una splendida città, ma anche un luogo soggetto e lacerato dalla lotta civile, corrotto dal potere e dal denaro.  Mi ritengo il più grande poeta e letterato italiano, ma sono anche un politico che ha rivestito cariche prestigiose. Fui nel Consiglio del popolo nell’anno 1295 e in quello dei Dieci nell’anno 1296; sono stato ambasciatore per la mia città. Tuttavia l’attività politica divenne il mio più grande cruccio.

Nel 1302 una sentenza mi condannò all’esilio perpetuo e al rogo. I mali sociali tradirono l’amore che provavo per la mia Firenze! Nonostante ciò, nella mia mente esiste un’altra immagine di Firenze, quella che avrei voluto che fosse e quella che è stata in passato. Sogno ancora la città sobria e onesta prima che diventasse il maggior centro di potere economico dell’Europa intera. Fui costretto ad abbandonarla, con tanto risentimento, ma tuttora la amo».

Cosa prova un uomo della sua levatura culturale ad essere condannato all’esilio da una sentenza così terribile?

«Appartenevo al partito dei Guelfi bianchi, ostili all’influenza papale in città. Credo di essere stato vittima di giochi politici più grandi di me da parte del governo “nero” fiorentino. La costrizione ad abbandonare la mia amata città natale mi ha profondamente umiliato. La sentenza mi condannò al pagamento di una multa e alla requisizione dei beni, per baratteria, nel 1302. Una nuova sentenza mi condannò alla pena di morte sul rogo. vissi per vent’anni allontanato da Firenze. L’esilio mi sconvolse e al tempo stesso rappresentò un’importante esperienza, mi fece ritrovare una grande forza interiore, mi permise di riflettere sul destino terreno e ultraterreno dell’uomo. La solitudine, accompagnata da un profondo senso di nostalgia, è il sentimento che più mi logorò. Con orgoglio e coraggio affrontai la persecuzione, preoccupato di avere la coscienza a posto.

Illustre poeta, da alcune citazioni contenute nei versi della Divina Commedia, emerge l’amore incondizionato verso “Madre Natura”. Quali cambiamenti ha innescato, nel suo gentil animo, il suo ultimo soggiorno a Ravenna?

«La divina città è stato luogo d’arte di grande bellezza per i miei occhi e per la mia anima; fonti di grande ispirazione le bellezze artistiche, la natura incontaminata, le dune sabbiose e la magia dei boschi secolari: tutto ciò ha fatto di Ravenna il mio rifugio. Solo qui, circondato dall’affetto dei miei cari, mi sono sentito finalmente in pace con me stesso».

Un’ultima domanda, se permette: che cosa rappresentano per lei l’amicizia e l’amore?

«Ho scritto un sonetto in cui descrivo il mio desiderio di trascorrere del tempo con i miei amici e le donne amate da ciascuno di noi. I miei amici preferiti erano Guido Cavalcanti e Lapo Gianni. Le donne da loro amate erano rispettivamente Giovanna e Lagia, entrambe donne molto belle. Per me l’amicizia è come una strada, un percorso in cui si fanno scelte comuni di approvazione e di dissenso per alcuni aspetti o fatti della vita. Due parole, talento e disio sono parole centrali nella mia vita: “desiderare e respingere le stesse cose”. Per ciò che riguarda l’amore sento di appartenere alla corrente letteraria del Dolce Stil Novo. Il mito di Beatrice ha ispirato gran parte delle mie opere e poesie. La donna, per me, è un angelo degno di lode; l’amore è ovunque, in forme diverse, è un sentimento che porta a migliorare se stessi. L’amore è un miracolo!!!».

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