«Fui un 'cittadino' a Ravenna» di Alice Faiella - 4° HL Liceo Classico Dante Alighieri (Ravenna)

Ravenna | 23 Dicembre 2021 Dante700
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Sono a letto, le palpebre non riescono più a sopportare il peso della giornata. Sul telefono mi appaiono numerosi articoli sulle manifestazioni che Ravenna sta organizzando per i 700 anni dalla morte di Dante. La mia mente si inonda di domande che avrei potuto fare al poeta studiato a scuola…ma il sonno prende il sopravvento su di me ed è proprio in sogno che mi appare una figura minuta, vestita di rosso e con l’alloro in testa che, dietro un albero, osserva le manifestazioni in suo onore. Non resisto…mi avvicino e incomincio a parlare con lui.

Dante, noi conosciamo la città di Firenze come una delle più belle città d’arte d’Italia. Ma com’era quando è nato lei?

«Quella in cui sono nato era una Firenze in cui si percepiva in ogni ciottolo della strada il sovrapporsi dei passi dei ricchi e dei poveri che li calpestavano. Assurdo era come, senza accorgertene, ti si proiettassero davanti, come una pellicola di un film, cortei variopinti dei nobili e schiere di poveri e giovani di strada

Mi ricordo bene, nel 1282, il periodo nel quale riuscirono ad ottenere una vittoria piena le Associazioni delle Arti, nome dei protagonisti della battaglia di potere contro i nobili, portata avanti dai ricchi mercanti e artigiani, che gridavano a gran voce il loro diritto a partecipare alla vita politica. Ogni giorno, durante quegli undici anni, era stato fondamentale per prendere il controllo delle cariche pubbliche.

Ma, quando sembrava essersi placato il mare in tempesta, un’altra onda aveva preso il sopravvento sulla temporanea tranquillità dell’acqua. Tra i Fiorentini si crearono due gruppi, i Guelfi Bianchi, che spalleggiavano i cittadini saliti al potere ed i Neri, l’altra faccia della medaglia, gli esclusi dal governo. Fui scelto per riappacificare gli scontri, che quotidianamente occupavano le strade di Firenze.

La correttezza scorreva fiera nelle mie vene, per questo non ho visto altra possibilità se non esiliare i capi di entrambi i partiti, nonostante Guido Cavalcanti avesse un posto speciale nella mia vita».

Cos’ha significato per Lei l’esilio? Com’è arrivato ad accettare la sua condizione di esule e straniero?”

«’Esilio’ è una parola che rappresenta per me un punto dolente della mia vita. Ma ha segnato una svolta decisiva nella mia esistenza e anche nell'evoluzione della mia opera.

Inizialmente questo tema lo associavo solo all’amara sofferenza per l’ingiustizia che ho subito, unita ad una terribile nostalgia per la lontananza della patria, Firenze. L’asprezza del dolore e dello sdegno che provavo nella speranza di una riabilitazione da parte dei miei concittadini, sono andati man mano calando, come ho cercato di spiegare con l’immagine della malinconia, del rimpianto e rassegnata accettazione delle anime del Purgatorio. Per rispondere alla tua domanda, cito i versi che ho detto a Folco da Marsiglia, nel Canto IX del Paradiso: Già non attendere’ io tua dimanda, s’io m’intuassi, come tu t’inmii: in essi ho inserito il concetto di “empatia”, cioè comprendere cosa fa o prova l’altro senza necessariamente provarne compassione. Così mi sono sentito quando ho camminato per la prima volta tra le meraviglie di Ravenna: capito, non allontanato e neanche compatito. Potevano trattarmi come ‘ospite’, oppure come ‘il diverso’, ma hanno scelto di guardarmi come un cittadino.

Dante, lei ha viaggiato tanto dopo aver lasciato Firenze. Perché ha scelto Ravenna per fermarsi?

«Posso dire che non sono stato io a scegliere Ravenna, ma è stata lei a scegliere me. Ero in un periodo buio, sommerso da pensieri e delusioni che viaggiavano nella mia mente al passo con il mio pellegrinaggio per l’Italia. Lì ho trovato la mia pace, in un posto tranquillo che mi trasmetteva la forza per superare la stanchezza che stava avendo la meglio sul mio corpo.

Ravenna mi ha dato tanto, ma io sono sicuro di averle lasciato altrettanto. Dopo l’invito del Signore della città, Guido Novello da Polenta, varcai la soglia di quella che sarebbe stata l’ultima mia dimora prima di morire di malaria. L’impronta che ho lasciato in questa città è evidente e le manifestazioni che sono qui a spiare di nascosto me lo dimostrano. Il sangue ravennate ormai scorreva nelle mie vene, tanto che l’ho trasmesso con l’inchiostro sulla carta nelle mie opere, attraverso dei riferimenti a Ravenna che non sempre saltano agli occhi in una prima lettura della Commedia.

Un passaggio riguarda il canto XXVIII del Purgatorio, in cui, attraverso una trasfigurazione, rendo omaggio alla pineta di Classe. La Divina foresta. E un altro, nel canto IV del Paradiso, fa riferimento ai mosaici della notte stellata della volta del Mausoleo di Galla Placidia. Se fosse stato lor volere intero, come tenne Lorenzo in su la grada e fece Muzio a la sua man severo”...».

Ma, proprio come Dante si svegliò con un tuono nel canto IV dell’Inferno, allo stesso modo i miei occhi si spalancarono quando il suono assordante della sveglia invase il mio sogno di tornar “a vedere le stelle”.

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