Maurizio Maggiani, romagnolo d’adozione, tra il nuovo libro «L’amore» e la tragedia di Genova

Faenza | 03 Settembre 2018 Cultura
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Federico Savini
«È un romanzo, la costruzione di un modesto tabernacolo in cui riconsegnare alla sua natura sacra la parola, uno strumento umano con cui restituire quello che io posso vedere, toccare, sentire, odorare e aver vissuto». E’ fatto anche (non soltanto) di ricordi – la «delicata materia di ciò che è già stato» nelle parole dell’autore – il nuovo libro di Maurizio Maggiani, L’amore, in uscita in questi giorni per Feltrinelli. Ancora una volta un titolo «ingombrante» - dopo Il Romanzo della Nazione del 2015 – per l’eclettico scrittore e giornalista ligure che da alcuni anni risiede nei colli romagnoli e che anche in questo romanzo, forse più ancora che in passato, affronta un tema che a molti metterebbe soggezione – specie se affrontato così di petto, senza infingimenti – ma lo fa con una semplicità che si coglie fin dalle prime parole, asciutte e non certo per semplificare, ma per ripulire la mente da tutto il superfluo.
«E’ proprio questo il mio intento – conferma Maggiani -. Alla mia età e con l’esperienza accumulata, ho la faccia tosta di scrivere un libro con questo titolo. Ma ormai non mi fanno paura i nomi così impegnativi e così male usati».
Lei come l’ha usato?
«Approfittando di un anno difficile per il mio Paese, di un inverno avvilente per il mondo in generale, ho colto l’occasione per fare pulizia, per ripulire la parola e riconsegnarla alla sua sacralità».
Con la storia di una coppia…
«Non è una coppia, sono due sposi. E’ diverso, è un particolare tipo di coppia».
Ha ragione, a cominciare dall’importanza delle parole. Ma l’amore che lei racconta è più quello che vede nella società o quello che sogna? O magari quello che ricorda?
«Non ci ho pensato, nel senso che non l’ho pensata in questi termini, non ho voluto fare raffronti. Con tutta l’onestà che mi è possibile ho cercato di mettere nel libro quello che ho maturato su questo tema negli anni. Ho ormai una lunga vita alle spalle e anch’io ho fatto i miei danni».
Il romanzo non si può però ridurre a semplice resoconto autiobiografico.
«Questo no, certo, perché dai ricordi scaturisce altro. Le sarà capitato di prendersi un giorno di pausa dal lavoro. Ebbene, immagino che avrà fatto cose che non faceva da un po’, io ad esempio di solito inforco la bicicletta o lavoro nell’orto. In queste situazioni si sarà accorto di come si finisca per pensare a tante cose in grande semplicità. Non è un giorno di seminario, i pensieri si muovono liberi, per associazione, si ampliano e certe volte si complicano. Sa com’è nato il libro? Dalla foto della figlia del ministro Padoan, finita sui giornali per una vicenda di cronaca. L’immagine di questa bella ragazza con un megafono in mano mi ha portato alla mente un’altra Padoan che avevo conosciuto tanti anni fa. Tutto è partito da lì…».
Inevitabile chiederle di Genova, un po’ più a freddo rispetto ai primi giorni. Qual è il suo sentimento sull’intera vicenda?
«Sulla tragedia del ponte Morandi ho scritto un solo articolo e rilasciato qualche intervista. Non voglio demordere da una posizione di dignità. È la mia città ed è alla città e non ad altro che vanno i miei pensieri. Credo che se Genova saprà ricostruire quel ponte anche l’intero Paese potrà riprendersi e ripartire. Genova l’ha fatto altre volte».
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