La Metallurgica Viganò da 25 anni in tuta blu

Faenza | 24 Settembre 2018 Cultura
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Federico Savini
«Quando abbiamo detto che era l’ultima volta, la gente non sembrava sconvolta. Non lo so mica se va bene…». Forse è perché mercoledì 12 settembre, nell’arena del cinema Europa di Faenza, cuore del Borgo Durbecco, lo spettacolo dei 25 anni della Metallurgica Viganò è stato una festa e semmai una celebrazione – «quella che non avevamo mai fatto» dice Roberto Pozzi -, e non certo un addio. Giammai.
L’ineffabile  gruppo di cabarettisti-operai dell’«Etno-Industrial-Folk» è sempre in prima linea - le serate-concept estive in piazza della Molinella sono tra le loro scommesse più riuscite – e il tempo dei ricordi è un lusso che, dopo un quarto di secolo di onorata e straripante carriera da 400 spettacoli, ci si può concedere.
Il gruppo è formato da Marco Boschi, Fabrizio Soglia, Stefano Cavina, Roberto Pozzi, Livio Lega, Alberto Fabbri, Fabiano Ferrucci, Stefano Melandri, Andrea Sarneri e Paolo Baldelli, ma ne hanno fatto parte anche Eugenio Monti, Ugo Farolfi e Davide Falconi. «Altri 25 anni non ci sentiamo di garantirli - dicono in coro Roberto Pozzi, Fabrizio Soglia e Stefano Melandri -, anche perché non ci siamo mai drogati bene come i Rolling Stones. Oggi siamo troppo giovani per Sanremo ma già troppo vecchi per andare da Scambio a Monte Brullo».
Come siete nati?
Soglia: «Era il 23 febbraio del 1993, martedì grasso. Recitavamo nella compagnia La Torretta, dall’87, e prima ancora facevamo recite carnevalesche in borgo».
Pozzi: «Anche roba seria, come un allestimento difficilissimo di Rumori fuori scena, quella roba che puoi fare giusto a 25 anni… Andò che i ragazzi più giovani chiesero a noi “vecchi” di completare la serata. A casa di Fabrizio passammo la serata ad ascoltare canzoni soul, come Under the boardwalk che ci pareva dicesse A voi la Volvo! nel ritornello. Così è nata la nostra prima cover».
Melandri: «A Fabrizio venne l’idea degli operai, perché ricordava una foto di un gruppo di amici che andarono a un matrimonio in tuta blu e il nome lo recuperò Marco  dall’azienda che produceva le cassettine degli interruttori della luce».
Pozzi: «Era un nome evocativo, superato ma reale. Entrammo in scena in canotta e divise legate in vita».
Melandri: «Poi, visto il fisico, le divise le abbiamo indossate...».
La Metallurgica evoca il teatro sperimentale, che si mescola al comico…
Pozzi: «Surreali ma anche popolari: era questa l’idea. Frequentando le sagre, abbiamo mangiato più castrato di quanto non ne avremmo visto con l’avanguardia…».
Soglia: «Dopo la prima recita, che consideravamo uno spin-off della Torretta chiuso lì, un’amica ci parlò di un concorso di cabaret a Imola. Partecipammo e vincemmo. La cosa ci portò alla celebre  Zanzara d’oro di Bologna e in mezzo a 250 gruppi arrivammo quarti».
Pozzi: «Ricordo il Duse pieno e poi anni di gavetta, con 30 date l’anno anche in Emilia, tipo in un locale modenese che credo sia stato chiuso per infiltrazioni mafiose… Eravamo di rottura, difficili da incasellare. La formazione è composta dai musicisti del “Quartetto Gramsci”, dal frontman Boschi e dai quattro pagliacci che si rimpallano la scena».
Mai pensato al professionismo?
Pozzi: «Non fino in fondo, siamo sempre stati semi-professionisti, migliorando col tempo e mantenendo un equilibrio che prevede l’apporto di tutti nel processo creativo».
Melandri: «Ci siamo molto “strutturati”, ci capiamo al volo e questo può far pensare a una sorta di improvvisazione, anche se gli spettacoli sono costruiti con precisione. Con gli schemi che abbiamo perfezionato, ogni spunto viene colto»
Pozzi: «“Non buttare via le situazioni” è una cosa che abbiamo imparato da Giuliano Bettoli, credo che la scuola del Borgo sia stata ottima. Abbiamo sempre cercato di annullare la quarta parete».
Quando entrò Maria Pia Timo?
Pozzi: «Il personaggio di Wanda la carrellista nacque per la cover di The look of love elaborata da Boschi. Era un’operaia virago che schiacciava le dita di tutti quelli che la incrociavano. Dopo un primo monologo, molto sopra le righe, al circolo I Fiori è rimasta con noi, diventando praticamente la nostra soubrette, prima della carriera che sappiamo»
Vedete diverse fasi nella vostra storia?
Soglia: «A quella “eroica” dei ’90, che ha coniato l’immaginario operaistico con le canzoni soul in dialetto, è seguita una fase con spettacoli più complessi e anche collaborazioni importanti, ad esempio con Riondino. E poi altri concorsi, con il quarto posto allo Zelig».
Melandri: «Abbiamo prodotto una musicassetta, una videocassetta e un cd. Nella quarantina di pezzi in repertorio non ci sono solo cover, ma anche canzoni nostre»
Pozzi: «Non abbiamo mai fatto satira politica, ma di società abbiamo sempre parlato, anche attraverso cose come il “Rione marrone” con cui celebrammo a modo nostro il Bisò. Siamo più sociali che social…».
E sempre in tuta.
Soglia: «E’ la nostra seconda pelle. Saremo sempre operai cassintegrati, che si adattano al “Cambiamento”».
Pozzi: «In 25 anni si sono avvicendati 15 governi, ma noi siam rimasti sempre in tuta blu. Abbiamo fatto anche degli errori, ma siamo critici tra di noi, gli spettacoli nascono dopo molti “filtri” da tutti. Le riunioni continuiamo a farle nei mercoledì sera della Champions».
I successi alla Molinella, con la spiaggia, l’osteria e il monastero Viganò, dimostrano che la Metallurgica «c’è», come pure il «Varietà», che pareva fuori moda…
Pozzi: «Ma noi non siamo mai stati alla moda! Abbiamo prodotto 12 ore di spettacolo in tre edizioni e con un sacco di lavoro dietro, mescolando sempre alto e basso».
Soglia: «In genere Roberto lancia l’idea, poi Boschi fa lo scettico e trova i limiti, così possiamo perfezionare tutto quanto. Il Monastero Viganò riflette sui 50 anni dal ’68, in un periodo in cui c’è voglia di scappare dalla realtà. Come dire: “se non lavori, va in ti frè!”».
E il futuro?
Pozzi: «Ci piacerebbe girare per teatri. E potremmo arrivare a 9 robot che parlano in dialetto. Puntiamo ufficialmente a questo!».
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