IL CASTORO | Vivà, il coraggio di schierarsi

Faenza | 07 Marzo 2018 Blog Settesere
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«Oggi siamo qui per raccontarvi una storia quasi sconosciuta a Faenza: la storia di una ragazza che si è trovata, senza averlo scelto, a vivere in tempi difficili, tempi in cui non era possibile non schierarsi, in cui era necessario scegliere e combattere, fino anche a rischiare la vita. È la storia di Vittoria Nenni, figlia di Pietro, quel Pietro Nenni a cui è dedicata la piazzetta della Molinella».

Con queste parole i ragazzi della classe 3B del liceo classico Torricelli-Ballardini, con la collaborazione della professoressa Elena Romito, hanno introdotto, nei cinema del centro, la pellicola Un sacchetto di biglie di Christian Duguay, in ricorrenza del giorno della memoria. Prima della visione hanno parlato, rivolti al pubblico presente in sala, di Vittoria Nenni, morta ad Auschwitz il 15 luglio 1943 e di suo padre Pietro, segretario del partito socialista dal ’33 e deputato dell’Assemblea costituente, nato a Faenza nel 1891.

Pietro Nenni, inizialmente repubblicano, rifiuta sin dall'inizio la collaborazione con il partito nazionale fascista. Nonostante i trascorsi d'amicizia con Mussolini in gioventù, il rapporto col Duce è travagliato già dal tempo della pubblicazione delle leggi Fascistissime: Pietro, socialista dalla fine della Grande guerra, scappa nel novembre ’26 a Parigi e pochi mesi dopo lo segue la famiglia: Vittoria ha 11 anni e la Francia socialista di Leon Blum è meta di grande interesse per gli esponenti politici italiani in fuga dal regime. Nenni e la sua famiglia si integrano nel gruppo di italiani emigrati a Parigi e, superate le prime difficoltà economiche, riescono a rilevare una tipografia: con questa attività Vittoria riuscirà durante l'occupazione a proseguire la pubblicazione del giornale socialista Avanti. Diretto da Pietro Nenni infatti dal 1923 al 1948, l'Avanti svolge un ruolo fondamentale nella vite di Pietro e di Vittoria: con l'invasione tedesca di Parigi nel giugno del '40, la famiglia Nenni è costretta a scappare e si rifugia al confine con la Spagna, dove Pietro stesso sarà protagonista della lotta dei rossi contro Franco. Vittoria decide di arruolarsi nella Resistenza francese e torna a Parigi con il marito Henri.

La tipografia Nenni stampa di giorno materiale non compromettente, di notte opuscoli e giornali che inneggiano alla resistenza contro l'invasore. L'attività di Vittoria prosegue per due anni, fino al '42, quando assieme a suo marito viene arrestata dai nazisti. Henri è fucilato per rappresaglia il 10 agosto 1942, Vittoria parte per Auschwitz il 23 gennaio dell'anno seguente. Vivà e le sue compagne arrivano al campo in 230 con il convoglio numero 31000 e il loro trattamento da prigioniere politiche è lo stesso riservato a tutti gli altri prigionieri del campo: nelle condizioni disumane di quei mesi, le compagne di Vivà sopravvissute allo sterminio scrivono riguardo la sua grande forza di vivere che dà a tutte il coraggio per continuare. Racconta Charlotte: «E sento che dipendo da Vivà come un bambino da sua madre. Sono aggrappata a lei che mi ha impedito di cadere nel fango, nella neve, da dove non ci si rialza».

Ma l'11 aprile, quattro mesi dopo essere arrivata ad Auschwitz, Vivà si sveglia con la febbre da tifo, a fine giugno le sue condizioni peggiorano: Vittoria, dilaniata dalle piaghe, muore di tifo il 15 luglio 1943, a ventotto anni non ancora compiuti. La famiglia Nenni aspetterà altri due anni per conoscere la sorte della figlia: è il ministro degli Esteri De Gasperi a comunicarne il decesso a Pietro. Per Nenni, la decisione di non chiedere aiuto a Mussolini resterà per sempre motivo di tormento. La notizia della morte è resa pubblica dai giornali, unanimi nel tributare onore a Vittoria come ad un'eroina, morta per portare avanti i suoi ideali: «Dite a mio padre che ho avuto coraggio fino all'ultimo e che non rimpiango nulla».

Scrive Pietro Nenni «[...] Sarà in ogni caso la sorgente di purezza dalla quale io spero di saper trarre, in ogni occasione, la forza per servire senza debolezza l'ideale al quale è stata immolata».

Leonardo Bandini

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