Lorenzo Tugnoli è uno dei tre italiani in lizza per il Premio World Press photo

Bassa Romagna | 05 Marzo 2019 Cultura
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Elena Nencini
Da Sant’Agata a Kabul senza ritorno: si può definire così la storia del fotografo Lorenzo Tugnoli, nato nel 1979 a Sant’Agata sul Santerno, ma trasferitosi per motivi di lavoro tra Beirut e Kabul fin dal 2010.
Le sue foto sullo Yemen sono state selezionate per il premio World Press Photo 2019 tra quelle di 4.738 professionisti di 129 paesi che hanno inviato alla giuria 78.801 fotografie. L’11 aprile ad Amsterdam tra i 43 fotografi selezionati verranno nominati i vincitori. Solo tre italiani sono stati scelti quest’anno.
Tugnoli lavora da diversi anni in aree a rischio, non sempre come spiega il fotografo «in prima linea, ma comunque in zone in difficoltà». Nel 2014 ha pubblicato il Little Book of Kabul, con la scrittrice Francesca Recchia e dal 2016 è entrato a far parte come free lance delll’agenzia Contrasto.
Raggiungo Tugnoli per telefono mentre si trova a Kabul per un servizio: «Fa un gran freddo, ha nevicato. Sto facendo un lavoro per documentare la situazione dei rifugiati che è piuttosto pesante. La città è abbastanza tranquilla, quando nevica ci sono meno attentati».
Come è finito a Kabul?
«E’ cominciato un po’ per caso. E’ successo. Lavoravo con Massimo Sciacca un fotografo di Bologna che all’epoca stava a Contrasto ed è stato uno dei primi a occuparsi di zone di guerra. Ho cominciato con un viaggio in Palestina, ma ero solo un giovane con la macchina fotografica. Poi è stato l’acme della missione Nato e c’è stato tanto lavoro per i fotografi. Adesso copro il Medio Oriente per il Washington Post».
Si aspettava la selezione al World Press?
«Assolutamente no. È inaspettata. Ogni anno invio le mie foto al premio perché è una delle cose che un fotografo deve fare, ma ci sono tanti fattori che portano poi la giuria a scegliere. Non la sola bellezza. Devo ringraziare l’editor di Contrasto, Giulia Tornari per avermi aiutato nell’editing (la selezione delle immagini per un determinato contesto nda). Il Washington Post – per cui ho realizzato il servizio in Yemen -   ha investito energie e soldi in questo paese molto prima che altri giornali ci puntassero. E sono stato fortunato ad essere stato scelto per andare anche perchè è un paese molto costoso e da free lance era impossibile. Invece così ho potuto starci a maggio 3 settimane, poi altre 5 tra novembre e dicembre. Ho fatto tanto lavoro e raccolto tante storie».
C’è una foto tra quelle del reportage in Yemen cui è particolarmente legato?
«La ragazza dietro la tenda. Ha fatto la prima pagina del Washington post, grazie anche al photo editor Olivier Laurent. Quando l’ho fatta ho avuto la sensazione che fosse una foto importante perché rendeva bene l’atmosfera che si respirava. Non è una foto prettamente descrittiva, ma trasversale. Abbiamo deciso di non sceglierla fra quelle da mandare al World Press perché non si scelgono solo le foto, ma bisogna avere un racconto fluido, che scorra. La mia ricerca personale è ricombinare il fotogiornalismo con una versione autorale, che cerchi di trascendere la semplice descrizione».
Con che macchina lavora?
«Ho lavorato con le Canon, poi con la Leica a cui mi sono affezionato per le dimensioni e la leggerezza. Adesso uso una Sony, una macchina piccola che combina leggerezza con poca intrusività. Oggi ho passato la giornata in un campo profughi pieno di neve e di fango, con tende e case costruite con la terra, con una macchina così è più facile avvicinarsi alle persone, essere meno intrusivo. Essere meno fotografo e più vicino alle persone».
Per il futuro?
«Vorrei continuare a tornare in Yemen. Continuerò sicuramente a lavorare a Beirut perché ci abito, sono più coinvolto. Riesco a parlare con le persone e questo mi permette di interagire e mi porta ad approfondire le situazioni».
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