La Procura di Bologna: «Mafie, guardia alta sul porto di Ravenna»

Romagna | 21 Marzo 2019 Cronaca
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Marianna Carnoli e Silvia Manzani - «Penso che nessuna città sia indenne dal rischio di infiltrazioni criminali se ha un’economia viva e che funziona. In presenza di lavori pubblici o appalti, il rischio è possibile, anche se non necessariamente probabile. Anche Ravenna, quindi,  presenta questo rischio». Sono le parole di Giuseppe Amato, procuratore capo di Bologna, a poche ore dalla XXIV edizione della Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie organizzata il 21 marzo da Libera e da Avviso Pubblico in collaborazione con il Comune di Ravenna, scelta quest’anno come piazza per rappresentare l’Emilia-Romagna. «Nel nord Italia il fenomeno è raro che si presenti con un’attività intimidatoria o di assoggettamento o con il paradigma tipico dell’associazione mafiosa, così come la conosce il codice penale. Oggi la criminalità organizzata ha la possibilità di  reinvestire capitali, atto non necessariamente collegato al fatto che debba esserci un’infiltrazione violenta e un impossessamento aggressivo del territorio. Il denaro, infatti,  può esser trasportato, speso ed investito in qualsiasi altra parte, quindi diciamo che non ha caratteristiche che abbiamo verificato con il processo Aemilia, ma certo il rischio delle infiltrazioni è ben possibile, per questo dico che la guardia deve essere sempre alta. So che a Ravenna sono in programma interventi sul porto, ambienti dove è necessario controllare: la prefettura ravennate, con le sue competenze anche in materia di interdittiva antimafia, dovrà fare il suo dovere come ha sempre fatto e continuare a monitorare questi fenomeni».

«PROTOCOLLO CHE FUNZIONA»
Ma come funziona, nei fatti, il monitoraggio? La Procura della Repubblica distrettuale di Bologna, che ha competenze su tutta la regione, ha in piedi da anni un protocollo con le singole procure circondariali che coinvolge anche le forze di polizia, grazie alle quali viene informata anche in assenza di una competenza diretta cioè quando non ci sono ancora i presupposti dell’esistenza di un reato mafioso, ma solo i cosiddetti reati spia che possono, poi, svilupparsi in altro: «Il protocollo funziona bene - aggiunge Amato - e la Procura del distretto è sempre informata su quanto viene rilevato dalle singole procure. Pertanto, sfruttando le conoscenze che ha su fatti analoghi o su un certo nominativo, potrebbe acquisire queste informazioni e la competenza a trattare questo fascicolo, se ipotizza che in concreto ci possano essere i presupposti della mafiosità. Teniamo sempre presente che il nostro è un compito investigativo mentre la prevenzione è affidata alle forze dell’ordine. Per quanto riguarda le infiltrazioni della criminalità, deve essere sempre alta la guardia sia delle istituzioni che della stessa collettività, che possono percepire prima di altri eventuali pericoli e allertare le forze di polizia che a loro volta possono informare la magistratura». Il sistema, per il Procuratore, consente di avere capillarmente il polso della situazione e questo grazie anche a una serie di iniziative giudiziarie la cui punta dell’iceberg è  rappresentata dal processo Aemilia che ha riguardato Modena, Reggio Emilia, Parma ma non Ravenna: «Per un contatto immediato, ho riorganizzato qualche mese fa la DDA ripartendo i colleghi sui singoli territori. Se in precedenza la ripartizione era basata sulla natura del fenomeno criminale -  dunque la mafia, la ‘ndrangheta o la camorra -  oggi sono stati individuati per ogni circondario almeno due colleghi competenti a trattare i processi distrettuali e questo consente di avere una competenza specifica dal punto di vista soggettivo, un contatto diretto coi magistrati di quel circondario e la possibilità di un interscambio di informazioni e notizie più immediato. Penso che questa sia una cosa positiva. Ripartire le competenze della DDA tra camorra, mafia e ‘ndrangheta poteva essere riduttivo».

«MICA PIZZO E OMICIDI» 
Le mafie restano il cavallo di battaglia per il «Gruppo dello Zuccherificio», che ha seguito per esempio, fino alla sentenza del 2017, il processo Black Monkey: «Anche nel 2018 - spiega il presidente Andrea Mignozzi - abbiamo collaborato con altre realtà regionali nella realizzazione del dossier “Il cane non ha abbaiato” sul radicamento delle mafie in Emilia-Romagna. Radicamento che forse i cittadini ancora non hanno così a mente. Teniamo sempre a ricordare come le mafie, oggi, guardino sempre più in là geograficamente e come gli interessi coinvolti non siano rivolti solo a droga e prostituzione ma ad altri settori come appunto l’azzardo o la finanza. Insomma, la mafia non e più solo quella che uccide e chiede il pizzo, così come bisognerebbe rendersi sempre più conto che è molto aggiornata sulle tecnologie e molto attiva negli ambiti poco regolamentati, dove l’attenzione di chi deve controllare è debole». E Mignozzi ne approfitta per lanciare una sorta di appello ai mezzi di comunicazione locali: «Siamo certi che i giornalisti del territorio, se avessero tempo e risorse, potrebbero fare inchieste sul tema, con effetti senz’altro positivi sul fenomeno».
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