La faentina Samantha Casella in concorso a Los Angeles con un corto su Bansky

Faenza | 25 Febbraio 2019 Cultura
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«In questo lavoro le difficoltà ci sono, e il mondo dei cortometraggi non porta necessariamente all’ingresso nell’industria cinematografica “vera”, però mi ritengo fortunata ad essere riuscita a fare i film che ho diretto. Per questo devo dir grazie ai collaboratori e agli attori in particolare, che hanno sempre investito tempo e talento nei miei lavori». Ripete di continuo di essere fortunata Samantha Casella, regista di origine faentina che si muove nel mondo dei cortometraggi da oltre 15 anni e col suo nuovissimo I Am Banksy, breve racconto di fiction sul più chiacchierato street artist contemporaneo, approderà al Golden State Film Festival di Los Angeles il 26 marzo, mentre in agosto se la giocherà con gli altri semifinalisti del Los Angeles Independent Film Festival Awards. E naturalmente non c’è solo fortuna dietro alle produzioni di un’artista eclettica, che si è formata attraverso l’Isia e la comunicazione via social, tra un corso di sceneggiatura alla scuola Holden di Baricco e la scuola di Cinema e Immagine di Giuseppe Ferlito a Firenze, realizzando negli anni una decina di corti che hanno avuto una certa fortuna nel circuito dei festival, più all’estero che in Italia. «Justice, del 2001, era il mio saggio di regia - racconta Samantha -. Vinse tanti premi e credo abbia convinto il plot, semplice ed efficace, di un prete che confessava una condannata a morte».
Immagino che la direzione attoriale sia centrale in questo tipo di film.
«Di sicuro ho avuto la fortuna di lavorare con bravi attori che mi hanno dato tanto, penso in particolare a Elisabetta Rocchetti in un momento di grande fama, o Raffaella Ponzo e Marina Rocco, ma anche attori faentini come Rita Gallegati e Matteo Fiori, che compare proprio in I Am Banksy. A proposito di Faenza, fu Lamberto Fabbri ad instradarmi sulla via del cinema sperimentale, vedi il documentario su Giuseppe Spagnulo che feci grazie a lui e che andò alla Biennale o lavori di video-arte sui jazzisti. Lavori per lo più sperimentali, piaciuti soprattutto all’estero, poi ho fatto documentari, tra cui uno sullo scultore Federico Severino, figlio del filosofo Emanuele».
«I Am Banksy» come lo definiresti?
«L’inizio può sembrare documentaristico, quando introduciamo il personaggio che poi è l’ossessione del giornalista che ne indaga l’identità [barcamendosi fra “artisti veri”, accademici ambigui, mitomani da pub, galleristi corruttibili e moderne sacerdotesse di culti arcaici; il film condensa in pochi minuti un mondo recondito di complotti, misteri, depistaggi e controdepistaggi, nda], ma di fatto è un film di fiction con un finale molto aperto. Del resto è giusto che ciascuno si faccia la sua idea su Bansky, la mia non vale più delle altre».
Bansky è un vero e proprio «argomento» ormai. Come l’hai affrontato?
«L’idea è nata da un working group di amici e colleghi, tra cui il montatore del film che ha avuto un ruolo importante, e ci siamo domandati se Bansky non fosse, in realtà, più una sorta di “sistema” che non un uomo in carne ed ossa. Con lui è tutto plausibile e implausibile allo stesso tempo, ci sono opere sue, enormi, che compaiono di punto in bianco e non possono essere l’opera di un solo artista. Nel film si immagina quasi un complotto ma io penso che, alla fine, queste trovate sul suo anonimato servano più che altro ad alimentare l’attenzione su di lui, e quello che conta sono i messaggi di critica sociale e politica che Bansky riesce a lanciare. Di sicuro l’anonimato lo aiuta».
Tornando al film, quali le principali difficoltà e soddisfazioni realizzative?
«Muoversi nel mondo del cinema è complesso e il circuito dei corti rimane slegato dalla grande industria. Non facendo film “sociali” mi muovo anche fuori dal circuito delle sovvenzioni pubbliche e negli anni ho affrontato anche progetti che non si sono realizzati, ma come dicevo le maestranze e gli attori mi hanno sempre ricompensato con la loro bravura e l’entusiasmo. I Am Banksy esiste grazie a Marco Iannitello, Caterina Silva, Diego Verdegiglio e tutti gli altri».
Contenta della partecipazione ai festival americani?
«Molto, non era affatto scontato. Il Golden State Film Festival è cresciuto molto e le premiazioni si terranno al Chines Theater, sulla Hollywood Blvd, una sala un po’ pacchiana ma davvero mitica, ospitò anche le premiazioni degli Oscar. Anche più inatteso il fatto di gareggiare al Los Angeles Independent Film Festival Awards, in agosto. E’ un’ottima vetrina e ci sono anche produzioni di alto budget». (f.sav.)
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