Il recupero di «Casa Manfredi» sarà legato a Palazzo del Podestà. Il Comune venderà ad un privato

Malgrado l’emblematico nome sia storicamente inesatto, resta uno dei luoghi più «faentini» e dai faentini ricordati con maggior affetto: basti citare l’elevato numero di visitatori, molti dei quali ex abitanti e visibilmente commossi, che si presentarono nel 2013 all’ultima apertura straordinaria (limitata al cortile e al pian terreno poiché i piani superiori erano già pericolanti), con visita guidata Pro Loco, nell’ambito delle celebrazioni manfrediane. Si tratta di Casa Manfredi, all’angolo fra la strada omonima e via Comandini, croce e delizia dell’amministrazione comunale che la acquistò nel 2002 esercitando un diritto di prelazione visto l’interesse pubblico e storico dell’edificio, ovviamente soggetto a tutti i possibili vincoli. Delizia perché una casa manfrediana (ancorché presunta) non poteva non far gola al Comune, soprattutto per la sua posizione centralissima, confinante con la Biblioteca e pertinente al progetto di realizzazione di un grande polo per l’ampliamento della stessa, polo esteso per oltre 10mila metri quadri da Corso Saffi fino appunto a via Comandini e comprendente, sull’altro lato, il complesso conventuale dei Servi (vedi in questa stessa pagina).
Croce perché poco dopo è subentrata la ben nota crisi e perché intanto il degrado fisico, già da tempo in atto, non si è certo fermato. Al punto che un paio d’anni fa l’amministrazione ha chiesto alla Soprintendenza l’autorizzazione ad alienare il palazzo in deroga alla legge che lo vuole di proprietà pubblica e pubblica utilità. La Soprintendenza ha risposto dopo un anno circa, con un «sì» condizionato, precisando che andranno rispettate volumetrie interne e destinazioni d’uso consone. In altre parole ambienti di pregio e restaurati come si deve, anche perché dentro è quasi tutto affrescato. E con soffitti cassettonati d’epoca manfrediana oltre a capitelli e magnifici fregi in cotto quattro-cinquecenteschi.
I termini dell’alienazione verranno illustrati dal Comune, nei dettagli, la prossima settimana. A chi si aggiudicherà l’appalto verrà chiesto, a mo’ di permuta, un intervento sull’altra spina del fianco della giunta Malpezzi: il Salone del Podestà, spazio di assoluto pregio ma che richiede un restauro conservativo e la realizzazione ex novo di un’uscita di sicurezza che affianchi l’unica oggi esistente (scala esterna con ballatoio in legno, sul retro del palazzo stesso).
Il recupero di Casa Manfredi è quindi non in dirittura d’arrivo ma almeno di partenza. Costi, tempi e modi restano da precisare. E’ altresì noto che la Soprintendenza chiede un parziale uso pubblico del cortile-giardino interno, magari in sintonia con il settore, relativamente piccolo (si parla di 200 metri quadri), di cui il Comune manterrebbe la proprietà per una «miniespansione», su questo lato, della Biblioteca.
Ma è ovvio che resta tutto, o quasi, da progettare. Esiste peraltro una certa mole di studi storici, cui si aggiunge l’ultimo, in ordine di tempo, curato da Vittorio Maggi. Lì viene chiarito il dubbio del nome, già sollevato in passato da altri studiosi perché con tutta probabilità la casa non fu mai dei Manfredi. L’equivoco, chiarito definitivamente dal giovanissimo architetto Angelo Banzola, deriva dall’errata lettura del simbolo scolpito su un capitello, creduto manfrediano e invece attribuibile alla fusione delle famiglie Viarani e Bazzolini. Per quanto non residenza dei Manfredi, il palazzo è comunque di origini medievali e fu decorato in varie epoche, fino all’arrivo di Giani (1820: vi lasciò quattro pregevolissime tempere) e di Clemente Caldesi che riempì una stanza di vedute scenografiche e paesaggi. I Caldesi sono stati i proprietari più importanti per cui lo studio di Maggi è stato intitolato «La famiglia Caldesi in via Manfredi».
Nel secondo ‘900 il complesso venne anche affittato e vi furono ricavati alloggi popolari, botteghe artigianali e negozi (una ricordatissima latteria venne aperta nell’angolo su via Torricelli, quello con portale gotico tuttora ben visibile). A partire dagli anni Settanta, con le mancate manutenzioni dovute al disinteresse degli ultimi proprietari, iniziò il degrado, culminato nel 1988 con la dipartita dell’ultimo inquilino. Poi l’abbandono totale e il resto è storia di oggi.
Sandro Bassi