Gabriele Albonetti: "Berlinguer, semplicità e rigore, non lo dimenticheremo"

13 Giugno 2014 Blog Settesere
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Era una fredda giornata di gennaio del 1983, per l’esattezza domenica 9 di mattina, quando Enrico Berlinguer passò da Faenza, dopo che il pomeriggio precedente aveva concluso a Ravenna una grande manifestazione popolare contro la droga che in quegli anni mieteva un numero impressionante di giovani vittime.
A Faenza, dopo una fugace visita al Museo delle Ceramiche, tenne una manifestazione nella sala Baccarini (oggi non più esistente), affollatissima di persone, e fece una passeggiata nella splendida piazza del Popolo, accompagnato da molta gente.
Fra quella gente c’ero anch’io, in prima fila perché in quel momento, pur avendo solo 31 anni, ero il segretario del Pci faentino. Ero al fianco di Veniero Lombardi che di quel partito era ancora il leader indiscusso anche dopo le sue dimissioni da sindaco della città, a cui era stato costretto poco più di un anno prima da quello che allora denunciammo come un ribaltone del Psi craxiano, ma che in realtà non fu altro che l’applicazione in sede locale del nuovo quadro nazionale del pentapartito.
Berlinguer, nel suo breve indirizzo di saluto alla sala Baccarini, si soffermò anche su queste vicende locali, mostrando comprensione delle difficoltà, ma sollecitandoci a non abbandonare la vocazione di forza di governo, respingendo ogni tentazione di arroccamento in una sdegnosa e sterile opposizione.
Bisogna dire, ad onor del vero, che negli anni successivi non sempre ci ricordammo di quel monito, e fu lunga e tortuosa la strada perché la sinistra ritrovasse il governo della città.
Si conservano negli archivi del partito e dei giornali locali molte immagini fotografiche di quella visita.
Una ce l’ho davanti agli occhi ogni giorno nel mio studio di casa, incorniciata e appesa al muro di fronte a me.
Mi è stata regalata come ricordo dagli amici e compagni del Pd quando, poco più di un anno fa, ho lasciato la vita politica attiva.
Confesso che ricevere quel dono mi ha procurato una particolare emozione: vi ho visto racchiuso il senso più profondo di un impegno durato quarant’anni, durante i quali l’esempio, le idee, la concezione dell’uomo e del mondo, la semplicità e il rigore morale di Berlinguer, hanno segnato la vita pubblica e privata mia e di tanti altri della mia generazione, anche e soprattutto dopo la sua prematura e dolorosa scomparsa su quel palco di Padova.
Risulta a me difficile spiegare ai giovani che si affacciano oggi alla vita sociale e politica, chi è stato veramente Berlinguer e che cosa è stato il suo Partito comunista italiano: troppe deformazioni, talvolta con le migliori intenzioni, ne sono state rese, troppo senso di comunità è andato perduto nell’imbarbarimento della vita civile, troppe incomprensioni sono state alimentate verso le vite di chi fa politica, perché sia possibile comprendere appieno di quanto sentimento autentico e di quanto affetto si impregnava l’adesione ad un partito e alla sua leadership, di quanto sacrificio disinteressato era fatta la partecipazione alla politica di tutti, dal più umile militante al leader più importante.
E guai a pensare che si trattasse di culto della personalità: fra i milioni che piangevano nei giorni della sua agonia, ce n’erano tanti che non sempre avevano condiviso le proposte politiche di Berlinguer, quelle che consideravano forzature, le improvvise svolte, le apparenti contraddizioni nella linea politica.
Nei dieci anni precedenti la sua morte il partito aveva discusso molto e quelli di noi che avevano una funzione dirigente avevano passato la gran parte del loro tempo a battagliare nelle sezioni ogni volta che Berlinguer apriva un nuovo fronte: il compromesso storico, l’esaurirsi della spinta propulsiva della rivoluzione d’ottobre, la scelta del campo occidentale e delle sue democrazie, e poi, verso la fine, l’alternativa democratica che sembrava un rifugio impervio e scomodo dopo il fallimento della solidarietà nazionale.
Forse, nei giorni della morte di Berlinguer, molti di noi sentivano che con lui finiva un’epoca, per quelli della mia generazione finiva l’entusiasmo della giovinezza, probabilmente finiva la fase vitale della storia del Pci.
Si spiegano anche così l’emozione e le lacrime che scorrevano copiose sui volti di uomini e donne mature, anche sul mio, in quelle ore di agonia del segretario, la commozione di un popolo intero che si raccoglieva al capezzale di un uomo che stava morendo in battaglia, dopo aver concluso dentro un’immensa fatica e sofferenza il suo ultimo comizio.
Non c’era a quel tempo la rete, non c’erano i social network, difficile sapere se dentro alla commozione che sembrava di tutti, si annidavano silenziose le cattiverie e la barbarie che si trovano oggi sul web, al riparo vigliacco dell’anonimato.
In ogni caso, anche a Faenza il cordoglio manifesto fu unanime, espresso pubblicamente in consiglio comunale da tutti i leaders politici di ogni partito, a cominciare dagli avversari storici come Piero Baccarini, Pier Antonio Rivola, Nerio Tura.
Qualche polemica sorse a causa di un oscuro corsivista del giornaletto locale della Dc che, riferendosi alla figura di Berlinguer e nel tentativo di sminuirne il carisma, lo definì «un pallido volto dell’apparato del suo partito».
Se ci fosse stato Facebook, quanti «mi piace» avrebbe tirato su?
Non lo sappiamo ma voglio ricordare, in conclusione, una frase profetica di Berlinguer: «…non credo che si potrà mai capire cosa pensa davvero la gente se l’unica forma di espressione democratica diventa quella di spingere un bottone…io credo che nessuno mai riuscirà a reprimere la naturale tendenza dell’uomo a discutere, a riunirsi, ad associarsi».
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