Bambini prematuri, 200 ricoveri all'anno a Ravenna, i casi più gravi trasferiti a Rimini

Bambini prematuri nati a partire dalla 28esima settimana di gravidanza, mai sotto il chilo di peso. Sono quelli accolti dall’unità operativa semplice di Terapia intensiva neonatale diretta, all’ospedale di Ravenna, da Giancarlo Piccinini. Un mondo di incubatrici e ventilatori composto da otto posti letto, di cui tre per l’assistenza intensiva e i restanti cinque per quella sub-intensiva. Ai quali si aggiungono le culle e le termoculle delle neonatologie di Lugo e Faenza, che si occupano però solo delle cosiddette «cure minime». Numeri piccoli, se si considera che i tre presidi ospedalieri del territorio provinciale fanno registrare un totale di circa 3500 parti ogni anno: «I casi più gravi – spiega Piccinini – vengono traferiti quasi sempre a Rimini, altre volte a Cesena. Quando un prematuro nato a Lugo o Faenza rientra invece nei nostri standard, lo accogliamo noi dopo il trasferimento con il trasporto di emergenza neonatale. Per i genitori dei bimbi che non risiedono sul territorio comunale, mettiamo a disposizione una stanza dove poter passare eventualmente anche la notte». Al momento sono sei i bambini ricoverati: «I numeri sono altalenanti – continua il pediatra – e risentono senz’altro della natalità. Il mese scorso è capitato, per esempio, di avere la Tin vuota. La media è di circa 200/250 ricoveri all’anno ma è capitato anche di fermarsi a ottanta. Fare statistiche generali sull’aumento o la diminuzione della prematurità a partire dalla realtà di Ravenna, d’altro canto, ha poco senso. Siamo troppo piccoli per fungere da campione». Il modello attuale della Tin del «Santa Maria delle Croci» funziona da dieci anni: «Il limite del chilo di peso ci venne imposto perché non avevamo personale esclusivo per la Terapia intensiva neonatale, essendo una sezione del reparto di Pediatria. E siccome i problemi più importanti si verificano nei bambini che pesano meno, è giusto che vengano accentrati in strutture più idonee». Quanto all’apertura 24 ore su 24, modello invocato di recente da un manifesto firmato, tra gli altri, dalla Società italiana di neonatologia, Piccini è cauto: «Anche dove ci sono gli orari di accesso per i genitori, come nel nostro caso, non è detto che il modello sia rigido. Noi, rispetto a qualche anno fa, siamo molto più elastici per questioni di umanità».
Sul fronte del sostegno psicologico, invece, al momento le famiglie possono solo accedere ai tre psicologi che seguono l’intero ospedale di Ravenna e che sono «oberati di lavoro». Si è infatti concluso un anno fa il progetto sperimentale «Pronto soccorso emozionale neonatale» portato avanti per sei mesi dall’associazione Psicologia Urbana e Creativa: «Tutti i giovedì mattina – spiega la referente Beatrice Siboni – abbiamo accompagnato i genitori all’interno del reparto, organizzando al contempo un corso per medici, infermieri e operatori socio-sanitari sulla comunicazione efficace e sul miglioramento del clima in ambiente stressante». Quello che hanno riscontrato le psicologhe è il «disperato bisogno» di aiuto da parte di tutti i soggetti: «I genitori devono costruire il legame di attaccamento con i bambini nonostante la distanza fisica e il trauma che hanno appena subito. Gli operatori devono riuscire a entrare in empatia con loro, usando il giusto tatto».
Lo sa bene E.M., una mamma di Faenza il cui bambino, a causa di una gestosi, al sesto mese di gravidanza aveva smesso di crescere, costringendo i medici a un taglio cesareo alla 33esima settimana: «Mio figlio è nato il 31 dicembre del 2014. Pesava un chilo e 400 grammi ed è stato messo subito in incubatrice, attaccato all’ossigeno fino a metà del giorno successivo. Per fortuna, nel dramma, il nostro è stato un caso abbastanza tranquillo, anche se i pediatri non si sbilanciavano mai». Il piccolo, alla Tin di Ravenna, è rimasto 27 giorni: «Per il primo periodo io e mio marito potevamo solo toccarlo con le mani, poi siamo passati alla marsupioterapia. Creare un rapporto con un bimbo prematuro in ambiente sterile non è semplice: hai voglia di baciarlo e stringerlo e non lo puoi fare. Vivi anche un senso di colpa perché sta soffrendo. E la sera, quando lo lasci, il distacco è pesante. Ma io mi sentivo in buone mani, mi fidavo e mi sentivo sicura al 95%. Ho visto mamme più provate di me, più sofferenti: per fortuna io sono riuscita ad affrontare la situazione. E quando abbiamo portato mio figlio a casa, è come se il mese precedente si fosse di colpo azzerato». (Silvia Manzani)