Federico Savini
«Signόr patron arvì la pôrta / che ad fora u j è la môrta / e ad dentra u j è l’alegria / viva Pasqua Epifania!». I canti delle Pasquelle, affidati ai «pasquaroli» nella notte tra il 5 e il 6 gennaio, sono una delle eredità più antiche (e anche più rare, ormai) delle radici contadine romagnole. Diffusi storicamente nella valle tra il Bevano e il Conca, oggi i pasquaroli si possono ancora vedere nella collina forlivese (a Galeata, Santa Sofia, Bagno di Romagna e poco altro), ma anche nella zona rivierasca, in particolare nell’area di Cervia, come racconta il libro Siamo qua da voi signori. La Pasquella nel territorio cervese (Longo, 1996), curato da Massimo Carli, con contributi di Eraldo Baldini e Alessandro Sistri.
Il pellegrinaggio notturno dei pasquaroli nelle case dei piccoli borghi, tra auguri propiziatori e scambi di cibo, nella notte tra il 5 e il 6 gennaio è l’ennesimo retaggio di antichi rituali legati alla fecondità e al culto dei morti. I recenti saggi di Eraldo Baldini e Giuseppe Bellosi sulle radici romagnole di Halloween e del Tenebroso Natale hanno divulgato nella nostra epoca le origini di queste usanze, sottolineando la somiglianza che nel mondo contadino, e in particolare in quello arcaico pre-cristiano, avevano il periodo della festa dei morti e quello di fine anno (poi trasformato in festività natalizie con il Cristianesimo). Di quest’ultimo periodo, il cosiddetto Dodekameron (25 dicembre - 6 gennaio), un tempo «magico» nel quale con la ripartenza del ciclo delle stagioni si confondono il mondo dei vivi con quello dei mostri, il punto terminale dell’Epifania è forse il meno «cristianizzato», quello che rimane più ambiguo e oscuro.
Tra i tanti riti contadini per «chi sta sottoterra» c’è l’accensione nel camino del zòc (poi diventato ad Nadêl) che simboleggiava l’estinguersi dell’anno vecchio, accoglieva gli antenati e teneva lontani i demoni. Ma sono proverbi come J animél / j è cuntintone, / i dis ben de’ su padrone a rivelare uno dei lati più inquietanti della notte che precede l’Epifania, ossia gli animali parlanti, nei quali secondo tradizione si incarnerebbero i defunti. La cosa più importante è non ascoltarli, in particolare in Romagna si credeva che il bove parlante potesse predire la morte dell’azdόr. E non parlavano solo gli animali di casa, dato che anche l’agenda 2016 di Mario Gurioli per il 6 gennaio ricorda che La not dla Pacvèta e’ scor e’ ciù e la zveta. Ad ogni modo, non è un caso che i pasquaroli - che interpretano gli antenati che annunciano abbondanza e portano doni ai vivi - venissero accolti in casa anziché nella stalla, che nei mesi invernali era il luogo più caldo, quindi normalmente privilegiato per i trebbi e i ritrovi in genere.
E questi gruppetti di uomini canterini, vestiti con camicioni bianchi e col viso intinto di fuliggine, in qualche luogo erano detti Le Vecchie. Lo stesso Franco Cardini sostiene che la Vecchia, ossia la Befana, sia da sempre un personaggio ambiguo, che incarna bene e male da un antico retaggio pagano.
Non è inusuale, peraltro, che nei gruppi di pasquaroli ci sia anche qualcuno vestito da befana e dei figuranti in costume da Re Magi. Tra i doni tipici dei pasquaroli c’erano le castagne, simbolo genitale (quindi sessuale), che andava alle giovani donne a testimonianza di quanto la fecondità dei campi fosse centrale nell’immaginario e nella vita dell’epoca. L’Epifania è la prima «pasqua» dell’anno (ci sono la «pasqua novella» che è la Pentecoste, la «pasqua della natività» che è il Natale, etc…) ed è, tra le feste tradizionali del periodo natalizio, quella che più ricorda il Carnevale, e guarda caso viene prima della quaresima e poco dopo la Pcarèja. Infatti le richieste di carne nei canti sono tipiche, ad esempio: La Pasquëla la ven tot j an, / quând ch’la ven la vô e’ salam, / e’ salam e la murtadëla, / viva viva la Pasquëla!.
Siamo qua da voi signori praticamente censisce l’attività e i gruppi dei Pasquaroli in tutto il territorio cervese (quindi anche Pinarella, Montaletto, Savio, etc…) nel corso del Novecento. Documenta inoltre il vestiario dei pasquaroli (nel cervese quasi sempre in abbigliamento contadino, con qualche Passatore che si intrufola…) e le formazioni musicali, nelle quali spiccano strumenti immancabili come organetto e violino, occasionali chitarre e clarini, e dagli anni ’70 gli ottoni, retaggio del liscio (e vale sempre la pena di ricordare che Secondo Casadei, prima di «sconfiggere» il boogie, arricchì lo strumentario di base delle orchestrine romagnole attingendo proprio dal jazz americano). L’importante è che a cantare non siano i buoi!
La cantêda dla Pasquëla
La Pasquêla la vien di ginaio
e d’agusto e di febbraio
la fornaia scaldava lo forno
e la Pasquêla girava dintorno.
Siamo in quattro e siamo in ottobre
per portar questo fagotto
il fagotto di Maria
viva Pasqua e buon finìa.
Sen aquà quart in brighéda
Par magnes un insalé
L’insalé l’è la pumpinëla,
viva viva la Pasquëla.
Sotto il ponte di Colomba
C’è una voce che rimbomba
da una parte la si sentiva,
viva Pasqua e benfinìa.
Patrunzena ch’la s’arvessa la pörta
Che qua fora u j è la mörta
In chésa sua u j è l’aligira
Viva Pasqua e benfinìa
(canta tradizionale dialettale pubblicata per la prima volta da Icilio Missiroli in un numero de La Piê del 1924)