Il Duo Trabadël al teatro dei Filodrammatici il 27 marzo per l’ultimo «Lõn ad mêrz»
Federico Savini
«Quando decisi di mettermi a suonare i saltarelli, le manfrine e la musica folk romagnola più remota, mi stupii a faticare così tanto per trovare altri musicisti e un pubblico interessato, visto l’interesse che i romagnoli sbandierano sempre per la tradizione. Capii in fretta che, oltre a suonare, dovevo mettermi a fare ricerca sul campo». E in effetti Roberto Bucci, quasi trent’anni fa, fu tra i primissimi a riscoprire il patrimonio musicale romagnolo che si ballava «per davvero» nelle aie, oggetto di una lunga damnatio memoriae di cui il successo del liscio è stato una concausa. E proprio I bël ‘d ‘na vôlta sono l’oggetto dell’ultimo «Lõn ad mêrz» della Filodrammatica Berton e dell’istituto Schürr, in programma il 27 marzo al teatro dei Filodrammatici di Faenza, alle 20.30. Sul palco, con Mario Gurioli a condurre, ci saranno Giuseppe Gallegati al violoncello e Roberto Bucci al violino, ossia il Duo Trabadël, prezioso gruppo folk del quale Bucci porta avanti l’attività da decenni insieme al più ampio organico de La Carampana. «Alla fine degli anni ’80 esisteva un interesse per le musiche popolari remote, diciamo così – ricorda Bucci -, solo che erano musiche lontane, non italiane! La cosiddetta world-music, insomma».
Com’è riemersa la musica popolare della nostra regione?
«Soprattutto grazie al Dams di Bologna, che trovò sull’appennino un violinista come Melchiade Benni, che suonava saltarelli, manfrine, bergamaschi e altre musiche da ballo autoctone e dimenticate. Grazie alla scuola di musica popolare di Forlimpopoli, da cui sono partito anch’io, la riscoperta è arrivata anche in Romagna».
Dove c’era il liscio.
«Sì, ma anche il liscio ha una storia che meritava di venire indagata, tanto che in questi anni lo è stata. Il problema è che ha davvero relegato nell’ombra le musiche che lo precedettero, espressioni genuine del mondo contadino. A fine anni ’80 le suonavamo noi e l’Uva Grisa di Rimini, era roba per pochissimi».
Come le recuperaste?
«Grazie alla scuola e facendo ricerche sul campo. Io le ho fatte nelle aree di Faenza e Castel Bolognese, grazie anche al violoncellista Livio Rambelli, un autentico ‘superstite’ del folk romagnolo. Gli ultimi anni ‘fertili’ per questo repertorio sono stati quelli fra le due guerre, con suonatori nati alle fine dell’800 come Benni e Rambelli».
Il Duo Trabadël suona violino e violoncello. E’ un organico tipico?
«Sì, soprattutto dell’area faentina, vedi il famoso Bagareta ma anche Livio Rambelli. La chitarra arrivò un po’ più tardi»
Il repertotio cambiava di paese in paese. Come il dialetto?
«Beh, non mi sento di azzardare una sovrapposizione, però il senso è all’incirca quello. I balli bene o male sono gli stessi, ma le versioni cambiano di zona in zona».
C’è interesse per questi balli?
«Dal punto di vista culturale sì, in molti hanno capito che è la nostra vera tradizione musicale. Il nostro intento non è museale, pensiamo che sia musica che ha tanto da dire anche nell’attualità. A ballarle non sono in molti, anche perché l’offerta sul ballo oggi è davvero enorme, ma c’è ancora chi trova in queste musiche la sua dimensione».
Sabato 1 aprile gli incontri al teatro dei Filodrammatici si concluderanno con la messa in scena di «Sa sò amalé al so pu mè», che Luigi Antonio Mazzoni ha tratto da Molière, con la Compagnia del Borgo di Giuliano Bettoli