Massimo Di Ricco
Nel 2003 ho messo il mio primo piede in Spagna, nel 2004 il secondo in Catalogna. Da quel 2004 sono andato e ritornato molte volte. Barcellona, la Spagna e la Catalogna cambiavano. Nel 2004 si riunivano nel Parlamento nazionale politici di tutte le forze e tutte le regioni in interminabili dibattiti sullo stato della nazione. L’indipendentismo catalano era un’idea remota, di nicchia, principalmente perché i principali partiti nazionalisti, quelli che oggi chiedono l'indipendenza, pattavano proprio con il Partito Popolare, che oggi manda la polizia a far sentire il peso della legge sui catalani. Quella era l'epoca in cui molti sognavano una nuova Spagna plurinazionale poggiata sulle basi del multiculturalismo e la crescita economica.
Domenica scorsa quella Spagna è diventata ufficialmente obsoleta. Non perché il sì nel referendum sia «passato» suppostamente con più del 90%. Neanche perché lo Stato spagnolo abbia voluto dimostrare chi eserce il potere della forza su una popolazione pacifica che chiedeva unicamente di votare. L'1 ottobre è stata la punta dell'iceberg di un processo politicamente scorretto fatto di atteggiamenti sconsiderati da entrambe le parti, che viene avanti da quando la crisi economica del 2008 mise in ginocchio l'intero paese. Si salvi chi può, tutti si sono riciclati nel nazionalismo, catalano e spagnolo. Nel 2011, la maggior parte dei politici catalani, anche i leader dell’indipendentismo attuale, dovevano letteralmente entrare al Parlamento con l’elicottero, per scampare all'ira degli indignados. Indignati che erano repressi brutalmente da quella polizia autonomica, i Mossos d’Esquadra, oggi venerata come esempio di buon senso. Dall’altra parte il nazionalismo spagnolo, quello del toro nelle bandiere, quello dei cori dell'epoca di Franco, quello del saluto fascista, quello degli agenti di polizia che caricano gridando «España, España» come fossero al Bernabeu, ne ha approfittato per risorgere dalle ceneri del post-franchismo.
Un’amnesia collettiva che non ha lasciato spazio al dialogo in una lotta testosteronica tra due nazionalismi che viaggiano su binari opposti. Nella stessa direzione però la frantumazione: «Yo màs macho que tu, tu màs macho que yo».
I catalani hanno tutto il diritto a decidere il loro futuro. Dove stare, dove andare. Il sentimento nazionale catalano è innegabile. Lo Stato spagnolo ha il diritto a far rispettare la Costituzione e mantenere l'unità dei suoi confini. Ma come dice Ada Colau, la sindaca di Barcellona apertamente non indipendentista e barlume di sensatezza nell'insensatezza generale, «spostare una questione politica nell’ambito giudiziario e l’azione poliziale, è totalmente inaccettabile».
E preludio a un incremento dello scontro. Nessuno è capace di prevedere cosa succederà, meno di tutti la classe politica. Sia che il Parlamento catalano dichiari l'indipendenza, sia che lo Stato abolisca l'autonomia e occupi la regione militarmente, la Spagna si affronta a vivere una lunga disputa interna che lascerà ferite aperte irriconciliabili.
Quella parte ancora maggioritaria, in Catalogna e in Spagna, che non ragiona a suon di testosterone nazionalista, e non crede in discorsi fittizi sulla patria, dovrebbero cominciare a far sentire più alta la sua voce, perchè saranno le principali vittime di questa cammino ormai senza ritorno. La Spagna che conoscevamo non c’è più, facciamocene una ragione.