Ottolenghi (Confindustria): «Torniamo allo spirito intraprendente degli anni Sessanta»

29 Giugno 2014 Blog Settesere
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Impresa e ambiente  devono andare di pari passo, senza demagogia e calcolando i benefici di ambedue gli aspetti, senza far prendere decisioni che interessano tutti. E' questo il succo del dibattito che è stato affrontato nell'assemblea annuale di Confindustria Ravenna svoltasi venerdì sera scorsa.
D'altronde «la crescita può tornare solo se riparte l'impresa, in particolare quella manifatturiera - ha sottolineato il presidente Squinzi -. Abbiamo l'obbligo morale e sociale tornare a investire su formazione e giovani».



L'intervento del presidente Guido Ottolenghi

Cari colleghi imprenditori, Autorità, amici, gentili e autorevoli ospiti, presidente Squinzi, grazie di essere con noi oggi a condividere riflessioni sul tema dell’ambiente nel mondo della politica e dell’impresa. Prima di svolgere il mio intervento vorrei salutare con particolare simpatia i colleghi presidenti di Forlì – Cesena, Vincenzo Colonna, e di Rimini, Paolo Maggioli, insieme ai quali abbiamo illustrato all’assemblea privata il percorso avviato per costituire entro la fine dell’anno una unione federativa denominata Confindustria Romagna aperta anche a Ferrara. È questo un traguardo, già deliberato dai nostri consigli e ormai a portata di mano e assai importante per le nostre associazioni. Vorrei anche formulare un augurio alla nostra città, candidata a Capitale Europea per la Cultura 2019, che attende la decisione finale il 17 ottobre prossimo. Confindustria ha sostenuto e sostiene questo percorso ribadendo il grande valore della cultura e le eccellenti credenziali di Ravenna, tra le quali quella di essere l’unica città candidata ricca anche di una profonda cultura industriale.
Per parlare di ambiente desidero cominciare dal porto di Ravenna. Come tutti sanno il nostro porto ha urgente bisogno di lavori di dragaggio e approfondimento che sono paralizzati da norme contraddittorie e illogiche, dalla passione per il cavillo, dal dialogo non sempre fluido tra le istituzioni, dalla bulimia giuridica del nostro Paese. Ma non è del porto attuale che voglio parlarvi, bensì di quello che inaugurammo nel 1963, ed è alle emozioni e alle speranze che suscitava allora che vi chiedo di tornare. Uno speciale porto del Resto del Carlino, a dicembre del 1962, mostrando le foto del nuovo impianto petrolchimico ANIC condivideva la gioia della comunità ravennate poiché “là dov’era la palude sorge oggi una vasta distesa di impianti industriali” ed esaltava la ricerca del metano “elemento propulsore della espansione industriale ravennate, anche in alto mare”. I moli guardiani di tre kilometri erano quasi completi, e i dragaggi procedevano spediti. Dagli articoli di quel tempo traspira l’anticipazione per ciò che questo immenso investimento infrastrutturale avrebbe portato alla nostra città, le opportunità di lavoro e di crescita, l’occasione di agganciarci all’industrializzazione del nord Italia in un’area ancora percepita come essenzialmente agricola. La politica colse questo spirito e seppe esprimere una visione lungimirante che permise a Ravenna di diventare un polo industriale e il più importante porto italiano per i cereali, mantenendo così il legame anche con la sua storia agricola. Evocare l’atmosfera di quegli anni è importante perché ci ricorda un modo decisamente più positivo di vedere l’industria, forse il modo con cui la vedono oggi le popolazioni dei paesi dell’estremo Oriente: essa era l’ingrediente che trasformava le vite, che portava speranza e benessere, che dava nuovi prodotti impensabili appena pochi anni prima. Un imprenditore di grande successo mi ha raccontato di come in quegli anni nel suo paese ai piedi dell’appennino fu costruito per la prima volta un bagno in casa, e di come si discutesse se faceva bene o male. Cambiò l’alimentazione, la vita media cominciò ad allungarsi, il lusso del tempo libero, con le gite fuori porta grazie alla diffusione delle motociclette e delle automobili, fu accessibile a sempre più persone. La politica si sentiva investita della missione di guidare la crescita, più che da quella di garantire la conservazione dell’esistente. Furono anni di riscatto per milioni di italiani, che costruirono per sé e per noi un benessere mai conosciuto dalle generazioni precedenti: nemmeno gli uomini più ricchi e più potenti del passato hanno sperimentato una qualità della vita come quella di cui godiamo noi oggi ad ogni livello sociale nel mondo industrializzato.
Ma questo sviluppo non fu privo di costi sia ambientali che sociali, come abbiamo capito in seguito, e se l’euforia per il miglioramento della condizione di ognuno dominava il dibattito pubblico vi erano già voci che si focalizzavano sui rischi ambientali. Ad esempio nel luglio del 1961 apparve sul Corriere un articolo che si scagliava contro l’orrendo sviluppo delle città voluto dai palazzinari con la complicità o la trascuratezza di sindaci e commissioni edilizie, e col debole baluardo di pochi “cittadini benemeriti e vigili associazioni”, e soprattutto parlava della proposta di ampliamento di un grande stabilimento dell’ILVA, quello di Bagnoli a Napoli, raccontando come gli impianti già operativi producessero grandi nubi di fumo che oscuravano la vista del golfo da Posillipo, depositando strati di cenere sulle foglie “dei mirabili alberi” del convento di Camaldoli. L’autore di questo articolo non era un contestatore che anticipava lo spirito del ’68, ma un grande studioso e politico liberale, già Presidente della nostra Repubblica, e cioè Luigi Einaudi1. Egli proseguiva rivolgendosi alle autorità con una domanda: “non hanno mai riflettuto che la produzione del fumo e della polvere è un costo dello stabilimento produttore, che i consumatori di acciaio e di cemento sono scorrettamente avvantaggiati perché nel calcolo del costo dell’acciaio e del cemento non si tiene conto del costo di rimangiarsi il fumo e la polvere…?” e offrendo una soluzione che ancora oggi coglie il cuore del problema ricordava che è dovere di chi amministra: “costringere i produttori del danno a sostenerne i costi”. Diremmo con termini più usuali oggi che vi sono esternalità nelle attività umane, alcune delle quali possono essere contenute con maggiori investimenti e altre indennizzate, e che lo sviluppo industriale di allora non ne tenne sufficientemente conto ponendo le radici per un disagio e una sfiducia verso l’industria che è cresciuto nel tempo.

Ma Einaudi non diceva che dovessimo vivere senza le fabbriche, e altrove ricordava che vi sono anche le esternalità positive. Infatti gli insediamenti produttivi forse portano disagi, ma anche tanto benessere: con le loro tasse permettono di mantenere scuole e ospedali, fanno crescere la cultura tecnica e professionale del territorio, stimolano le università, creano contatti con altri territori, innalzano il tenore di vita. Nei territori dove l’industria non ha potuto insediarsi o svilupparsi vediamo molti più problemi politici, sociali e forse anche ambientali rispetto alle comunità che hanno sempre creduto alla capacità dell’uomo di fecondare operosamente la natura. Per questo oggi vogliamo proporre riflessioni non convenzionali su come si guarda al rapporto tra industria e ambiente, e su cosa pensiamo che sia l’ambiente. Come un pendolo che instancabile oscilla tra i suoi punti estremi, soffermandosi solo un attimo nel suo punto di equilibrio, così la nostra società sembra esprimere un dibattito che dà spazio principalmente agli estremi dello sviluppo ad ogni prezzo o dell’ambientalismo catastrofista e nemico della libertà2,  e oggi il pendolo sembra ancora trovarsi sul lato ostile alle nuove iniziative. Ma l’industria esprime in genere un punto di vista più equilibrato ed empirico, pronto a riconoscere i costi dello sviluppo, ma ansioso di far sì che anche i costi del mancato sviluppo siano resi conoscibili e non occultati come accade spesso oggi nei dibattiti. Questo è un tema molto importante, e il migliore esempio vicino a noi è proprio il dragaggio del nostro porto, i cui vantaggi sono enormemente maggiori di ogni possibile svantaggio, peraltro indennizzabile. L’industria vuole che sia riconosciuto lo sforzo fatto in questi anni nel migliorare la propria sensibilità ambientale, e la capacità di ascoltare e indennizzare le comunità laddove appropriato. L’industria avrebbe anche bisogno di regole certe e stabili, perché un investimento, quando è avviato, deve potersi completare e deve poter permanere nel tempo, anche crescendo. In altre parole la comunità, per evitare di attirare solo investimenti effimeri o che hanno un ritorno molto breve, deve garantire non solo le condizioni per l’insediamento, ma anche per la sua crescita futura, perché nessuna impresa può restare ferma.

Per approfondire queste idee vorrei attirare la vostra attenzione su alcuni concetti che ci stanno a cuore, e precisamente che: 1) l’ambiente non esiste in natura, 2) le esternalità negative e positive sono conoscibili solo in parte, ma lo sviluppo riduce sempre quelle negative ed esalta sempre quelle positive, 3) la credibilità della classe dirigente è fondamentale per l’ambiente e per l’industria.

La prima riflessione, cioè che l’ambiente non esiste in natura, può sembrare paradossale, ma ci viene da Carlo Cattaneo, patriota e politico federalista, che nella prima metà dell’Ottocento, parlando della sua amata Lombardia ricordava che: “ogni regione civile si distingue dalle selvagge in questo, ch’ella è un immenso deposito di fatiche. La fatica costrusse le case, li argini, i canali, le vie. […] Chi potrebbe fare estimazione dei tesori che vi stanno invisibilmente incorporati? […] Quella terra per nove decimi non è opera della natura, è opera delle nostre mani”3. Lo stesso possiamo dire ad esempio delle colline della Toscana coperte di vigne e uliveti, e di poggi e castelli, ma anche del nostro territorio ravennate: Ravenna, come Aquileia e Venezia, non è stata forse costruita su una palude, con palafitte, palizzate e ponti, magari interferendo con la biodiversità e i beni paesistici? La pineta che amiamo e proteggiamo lungo le nostre coste fu piantata dall’uomo, e precisamente dai romani che ne ricavavano il legname per la flotta stazionata a Classe. Ci lamentiamo dell’erosione delle coste e della subsidenza, ma dimentichiamo che le coste sono instabili dall’antichità, che il porto di Classe è ora interrato, che Ravenna ha poi spostato il suo scalo a Fiumi Uniti, prima di doverlo abbandonare per Porto Corsini, e che furono i monaci camaldolesi, di San Vitale e di Classe a volere estendere la pineta sul litorale, anche per arginare l’erosione erratica delle coste. Insomma forse non è così paradossale dire che l’ambiente non esiste in natura, che l’uomo fa parte dell’ambiente ed ha un rapporto dialettico con la natura. Ricordiamoci dunque che l’uomo con fatica millenaria cerca di creare un habitat adatto al proprio sviluppo e benessere, e che molte cose belle e grandiose le ha fatte in epoche in cui non erano richieste Valutazioni di Impatto Ambientale, e non vi erano comitati del no né sovrintendenze. Ci è assai chiaro che con l’aumento delle capacità tecniche è anche aumentato il nostro potere di fare danni e di causare troppe di quelle esternalità negative di cui ben parlava già Einaudi, ed è dunque necessario che vi siano regole e autorità che vigilino su quanto facciamo, ma il nostro auspicio è che non siano solo presidio di conservazione, ma anche che sposino la visione di Cattaneo, e cioè che senza la nostra opera assidua quello che chiamiamo ambiente regredisce in poche generazioni ridiventando natura ostile.

Il secondo concetto che vogliamo sviluppare è più economico che culturale, e cioè che è evidente che le iniziative industriali (come ogni altra attività) generano esternalità positive e negative, e che esse devono essere valutate e comprese sia dalle autorità che dai cittadini, che è giusto introdurre elementi di mitigazione, ma che è illusorio e dannoso immaginare di poterle misurare e bilanciare per intero e con precisione. Quando l’industrializzazione in Europa portò milioni di persone dalle campagne alla città, riscaldate col carbone e circondate da fabbriche alimentate a carbone, probabilmente non si conoscevano gli effetti negativi che l’esposizione di lungo periodo alle polveri sottili porta all’apparato respiratorio, ma si sapeva che l’aspettativa di vita era più bassa in campagna che in città, per il freddo, la fatica, la diffusione della tubercolosi e la lontananza da ogni assistenza medica. Pur con tutte le miserie ben descritte da tanti autori dell’Ottocento, l’industrializzazione portò progresso medico e tecnologico, e un benessere sempre più diffuso. Ma non solo: aggregando i lavoratori e le classi sociali più povere favorì la difesa dei diritti del lavoro, la circolazione delle idee, ampliò il principio di uguaglianza e libertà e provocò un progresso politico e democratico delle nostre società.  Insomma pur non avendo potuto, o voluto, calcolare appieno le esternalità generate dall’industrializzazione, e pur ammettendo molte e profonde ingiustizie, essa portò così tanti benefici da trovare da sola i rimedi per i danni che aveva causato. Anche oggi possiamo valutare le negatività di un progetto, e cercare di stimare che danni potrà causare di qui a trent’anni e imporre mitigazioni. Ma dobbiamo ricordare che in qualche modo quel progetto (anche solo con le tasse che pagherà) contribuirà ad un progresso tecnico e scientifico che potrà ovviare a quegli stessi danni. Noi non siamo in grado di stimare in quale grado ciò avvenga nei trent’anni di vita del progetto, ma l’esperienza ci mostra che è sempre prevalente il contributo positivo. Ad esempio trent’anni fa meno di una persona su mille possedeva un personal computer, nessuno aveva il telefonino, non esistevano la Tac o la microchirurgia, si pensava che il petrolio stesse finendo, si ascoltava la musica sui nastri magnetici e si facevano i filmini col VHS: chi avrebbe previsto correttamente se il mondo di oggi sarebbe stato migliore o peggiore? Chi cancellerebbe oggi quello sviluppo perché magari nel 1980 taluni investimenti sembravano o si rivelarono in seguito dannosi? Un noto ambientalista ed entomologo americano nel 1970 predisse che l’Inghilterra sarebbe stata sommersa dalle acque a causa del riscaldamento globale entro l’anno 20004, il Club di Roma predisse nel 1972 catastrofi mai realizzate5, un organismo dell’ONU per il controllo climatico, l’IPCC6, dal 1990 a oggi ha cambiato (in modo erratico) a ogni suo rapporto la stima di innalzamento dei mari al 2100 sottacendo che il livello dei mari sale da 18.000 anni. Insomma persino sul tema centrale del dibattito ambientalista, cioè quello del riscaldamento globale, assistiamo a una produzione continua di dati allarmisti e inaffidabili. Quindi non solo ci confrontiamo con la sfida di prevedere quanto lo sviluppo possa da solo curare i danni che provoca, ma abbiamo anche la difficoltà di partenza di capire quali siano effettivamente i danni di cui preoccuparsi seriamente. Lo vediamo anche nella nostra vita quotidiana, quando gli operatori turistici, non senza ragione, minacciano di far causa ai meteorologi che non riescono a prevedere il bel tempo a pochi giorni (e non fino al 2100 come vuole fare l’IPCC), ma a loro volta i meteorologi temono le cause legali contrarie per non avere dato tempestivi allarmi meteo, così come gli scienziati, dopo essere stati condannati in tribunale per non aver previsto il terremoto dell’Aquila7, sono ormai condannati per prudenza a “non escludere” la possibilità di ogni catastrofe alimentando l’allarmismo. Forse dovremmo far riemergere nel dibattito pubblico la constatazione che la natura è più potente di noi e che c’è un po’ di arroganza nel pensare di governarla completamente. Questo è bene ricordarlo perché l’uomo pur nel suo incessante lavoro secolare, ha sempre temuto la potenza della natura, riconoscendo di non poter controllare ogni cosa e affidando alle divinità, ai miti ed ai riti la consolazione per le catastrofi che ha sempre subito. È solo nell’ultimo secolo che il positivismo ci ha convinti di poter dominare col progresso tecnologico i rischi a cui ci consideravamo inevitabilmente esposti. Così ora viviamo in una temperie culturale che ci illude di avere la forza di eliminare ogni rischio, e perfino di poter influire sul clima (in un senso o nell’altro). Ma i ghiacciai si ritiravano anche ai tempi dei romani (Annibale non sarebbe riuscito a passare le Alpi) e dei vichinghi (che trovarono la Groenlandia abbastanza verdeggiante da chiamarla appunto terra verde), i terremoti avvenivano anche quando non si facevano le trivellazioni, e la costa si erodeva anche nel Medioevo, ed è solo lo sviluppo economico che ci permette di ridurre, ma non di eliminare, quei rischi8. È dunque necessario rispettare l’ambiente, comprendere i rischi e le esternalità dei nuovi investimenti, comprese le esternalità positive, ma anche ritrovare la fiducia ed il gusto per lo sviluppo che leggiamo nel Carlino del 1962.

Se siamo capaci di riconoscere che anche l’opera dell’uomo è parte dell’ambiente, e se concordiamo che la miglior tutela dell’ambiente risiede proprio nel progresso scientifico e nella capacità degli uomini e della natura di adattarsi ai cambiamenti, allora siamo pronti per affrontare il terzo dei concetti che vogliamo approfondire, e cioè come la credibilità e l’onestà intellettuale della classe dirigente, a partire da noi imprenditori, sia l’ingrediente essenziale nell’esaminare e condividere con le comunità locali i nuovi insediamenti produttivi o le infrastrutture, e sia anche l’unico baluardo contro l’egoismo e la prepotenza di comitati spesso esigui, privi di senso di responsabilità collettiva e portatori di interessi personali.
L’impresa deve recuperare appieno il suo ruolo di creatore di benessere, e nel contempo deve accettare regole chiare e logiche e collaborare onestamente con le autorità nel gestire il tema delle esternalità dei propri progetti. Deve anche a mio avviso smettere di invocare più leggi e meno discrezionalità per gli organi tecnici. La discrezionalità è sempre associata alla responsabilità. Sono proprio troppe leggi e il rifiuto di taluni tecnici di prendersi responsabilità ad aver paralizzato i processi decisionali e forse hanno anche favorito la corruzione, come vediamo all’Expo o al Mose di Venezia. Il trentesimo presidente americano, Calvin Coolidge9, diceva che è molto più importante bloccare una cattiva legge, che passarne una buona, e che l’amministrazione ha bisogno di tempo per assimilare e consolidare l’applicazione di una norma.
Le istituzioni devono affermare il loro ruolo di credibilità e autorevolezza, che funge da contraltare all’ambientalismo emotivo e manipolativo che si serve di internet e delle teorie del complotto, come abbiamo discusso a fondo nella relazione dell’anno scorso. Esse devono difendere il principio che dopo i dibattiti, che si devono svolgere nelle sedi e nei tempi previsti dalla legge, le decisioni vengono prese dagli organi eletti democraticamente e non dai comitati cittadini. Le autorità non devono mostrarsi deboli coi forti e forti coi deboli incoraggiando così la prepotenza.
Le comunità locali dovrebbero ricordare che la retorica ambientalista è sempre improntata a terrorizzare le persone giocando sulla complessità tecnica dei progetti e facendo balenare rischi remoti ma gravissimi, e a fare leva sul senso di emergenza e di sfiducia verso le istituzioni per imporre senza contraddittorio la propria agenda10. Ma in questo modo la comunità locale non è mai messa in grado di percepire il costo di rifiutare lo sviluppo, e lo rovescia inconsapevolmente sulle generazioni future.
Gli organi tecnici devono rendere conto delle loro scelte. Ma devono anche avere quel grado di discrezionalità che gli permetta di valutare nella sua completezza la pratica che affrontano, stimandone per quanto possibili sia i costi che i benefici incrementali per la collettività.
Infine la magistratura: essa gioca sempre più un ruolo nel rapporto tra impresa e ambiente e le notizie che leggiamo ci danno in effetti l’impressione di un ruolo cruciale in un Paese che mostra profili di illegalità dovunque si guardi. Ma le imprese e anche le amministrazioni pubbliche nella maggioranza sono serie e pulite, e nelle loro opere o attività si adoperano per rispettare leggi e regolamenti complessi e spesso contraddittori e incomprensibili. Vorremmo avere di più la sensazione di una capacità di distinguere tra la gravità dei reati dolosi e delle attività delle ecomafie, e il territorio più incerto dell’interpretazione e dei comportamenti colposi. Siamo anche sempre più disorientati dalla diffusa applicazione del cosiddetto principio di precauzione, che dalla politica è passato al pensiero giuridico e poi alla incorporazione nelle sentenze. Esso ha determinato anche recentemente il sequestro temporaneo (ma con danni permanenti) di attività che, pur operando nei parametri di legge, non attuavano appieno le cosiddette best available techniques (BAT), o che non superavano la diabolica prova negativa del dimostrare di non fare alcun danno.

In conclusione l’impresa ha una responsabilità verso l’ambiente e non deve scaricare sulla collettività i costi della propria attività, pur bilanciati dai vantaggi che essa apporta, ma crediamo che nei decenni passati abbia generalmente assimilato questa lezione. Le pubbliche amministrazioni dovrebbero ora dotarsi di strumenti che lascino spazio anche al buon senso, perché a noi pare talvolta di essere in quella situazione che Manzoni11 descrisse a proposito della peste a Milano dicendo: “il buon senso c’era, ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune”. Infine politici e comitati non devono poter incamerare i vantaggi del dissenso e scaricare con leggerezza sulla collettività e sulle generazioni future i costi del mancato investimento.

Nelle relazioni passate abbiamo sottolineato il ruolo dell’impresa nel favorire la libertà, nel selezionare una buona classe dirigente e nel cercare modi di comunicare scelte complesse alla propria comunità. Quest’anno abbiamo cercato di analizzare l’interazione di questi tre temi nella relazione tra impresa e ambiente, ricordando che l’ambiente esiste grazie all’opera dell’uomo, che il libero e responsabile sviluppo di tale opera lo preserva, e che la credibilità della classe dirigente lo rende comprensibile alle comunità dove viviamo.

Foto di Massimo Fiorentini


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