Vent'anni di Schurr

Romagna | 16 Febbraio 2017 Cultura
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Federico Savini
«Il dialetto romagnolo sta poco bene, questo è certo, ma non è morto. Riscontriamo molto interesse da parte dei giovani e anche se un paio di generazioni hanno perso il legame col dialetto, sono tanti a volerlo riscoprire, a coglierne il valore identitario. Lavoriamo anche, e forse soprattutto, per loro». A vent’anni dalla nascita dell’associazione, oggi è ben chiaro a Gilberto Casadio quali siano gli obiettivi dell’Istituto Friedrich Schürr, nonché l’importanza che ha guadagnato sul campo.
Autentico caposaldo della salvaguardia e della promozione del dialetto romagnolo, lo Schürr nasce a Santo Stefano di Ravenna il 6 dicembre 1996, costituito da 18 soci provenienti dal Circolo Culturale Ville Unite, dal consiglio di circoscrizione di San Pietro in Vincoli e dalla Pro Loco Decimana. Dal gennaio del ’97 sono attive le prime tessere degli associati, a metà di quell’anno si svolge la prima assemblea e in dicembre esce il primo numero della Ludla, organo dell’associazione. Il primo presidente è Ermanno Pasini, il cui vice Sauro Mambelli ha pubblicato nel numero appena uscito della Ludla la storia dell’Istituto Schürr, con dovizia di dettagli. Una storia che ricapitoliamo cercando di tirare qualche somma e lanciare uno sguardo al futuro insieme a Gilberto Casadio, direttore editoriale della Ludla da una decina d’anni, tesserato dal 1999, consigliere da circa 6 anni e oggi anche vicepresidente (la presidente in carica è Carla Fabbri, che succede a Cristina Ghirardini, Oriana Fabbri, Gianfranco Camerani e il citato Ermanno Pasini). «L’intitolazione dell’associazione a Friedrich Schürr era praticamente inevitabile, visto il suo determinante e pionieristico contributo allo studio del romagnolo - commenta Casadio -. E questo nonostante ancora qualcuno ci domandi come mai abbiamo usato il nome di un austriaco…».
L’intento fu chiaro da subito?
«La lingua romagnola e la cultura popolare sono i centri d’interesse dell’Istituto Schürr, e così della Ludla. Non aveva senso creare una nuova Piê, la nostra non è una rivista accademica e si rivolge anzitutto ai soci, che oggi sono circa 900, soprattutto romagnoli ma anche da altre regioni e dall’estero. Le copie della Ludla sono oltre 2.500 perché le inviamo anche a scuole, biblioteche e Comuni. Gli articoli sono di vario genere, si va dall’alto al basso toccando tutti gli argomenti che ci interessano e dando voce ai soci. Da sempre abbiamo un contributo del Comune di Ravenna e inizialmente la Ludla veniva stampata dal parroco di Santo Stefano, poi l’editore Il Ponte Vecchio ci ha instradati verso modalità più professionali».
Perché il nome Ludla?
«E’ la favilla, e non l’allodola come alcuni pensano, ma questa parola è diffusa soprattutto nell’area delle Ville Unite. A Faenza, per capirci, si direbbe Sflezna».
Quali sono le principali attività dell’associazione?
«Facciamo corsi di dialetto e tradizioni nelle Università per Adulti e altre istituzioni, recentemente anche alla Classense a Ravenna, e poi corsi nelle scuole e serate in vari circoli. Organizziamo i concorsi biennali di poesia, E’ Sunet, e prosa, E’ Fat, oltre a eventi come la Spanucêda e le serate dei giovedì di luglio a Santo Stefano, sempre molto partecipate. Da qualche anno abbiamo ripreso la vecchia usanza dei Trebbi, lanciata a suo tempo da Spallicci, con visite in paesi romagnoli, pranzo e pomeriggi poetici. Oltre alla Ludla abbiamo pubblicato alcuni ‘quaderni’ di studi e soprattutto una ventina di libri, finanziati grazie a Fondazioni bancarie e insieme all’editore La Mandragora, con nuove opere ed edizioni critiche di testi fondamentali per la cultura romagnola, vedi i lavori di Placucci, Piancastelli, Bagnaresi e Pergoli, a partire da Romagna di Icilio Missiroli, che nel 2000 venne ripubblicato con un saggio di Giuseppe Bellosi».
E poi c’è il Vocabolario Etimologico Romagnolo di Gilberto Casadio…

«Beh, sì, devo dire che ha anche venduto parecchio».
Un bell’impegno, nel complesso…
«Tutto si regge sul volontariato, in particolare dei 13 membri del consiglio direttivo. Ci troviamo in sede ogni martedì pomeriggio e venerdì mattina. L’impegno è ripagato dal fatto che crediamo nell’utilità dell’associazione e dal riconoscimento che otteniamo, oltre che dall’interesse che il dialetto suscita sempre».
Quando avete capito di essere un punto di riferimento?
«Nel giro di poco, non ci sono associazioni complessivamente paragonabili alla Schürr in regione. La Romagna ha la caratteristica di essere rimasta sentimentalmente legata a una lingua che però venne abbandonata negli anni dell’urbanizzazione, perché considerata la ‘lingua dei poveri’. Altre regioni non hanno avuto questo problema. Siamo abbastanza ‘unici’ anche per questo».
Internet aiuta la promozione?
«Moltissimo, abbiamo un sito molto aggiornato grazie soprattutto al lavoro di Paolo Borghi (visita consigliata: ci trovate calendari di eventi e iniziative, oltre a una sezioni audio preziosa, agli archivi della Ludla e alle versioni digitali di testi e dizionari fondamentali per la cultura romagnola, nda). Dall’iniziale nome Argaza, la gazza, siamo passati sul dominio dialettoromagnolo.it, che avevamo già registrato, proprio per essere più reperibili in rete, più istituzionali. Da qualche anno siamo anche sui social network. Anche rispondere alle mail è un lavoro: ci arrivano richieste di ogni genere, dalla traduzione in romagnolo dei menù matrimoniali alle norme di grafia, fino ai significati delle parole. Siamo una specie di ‘pronto soccorso dialettale’».
Il che denota interesse…
«Sì, c’è un risveglio soprattutto delle nuove generazioni; è in questa direzione che cerchiamo di intensificare i nostri sforzi progettando eventi con gruppi di giovani interessati al dialetto: loro sanno che non parlandolo perdono parte della loro identità. Anche i social network, magari in modo un po’ sgangherato, fanno capire la stessa esigenza. La comunicazione interpersonale in vernacolo ormai s’è persa, ma la frase, la ‘botta’ in dialetto la inseriscono ancora in molti nei loro discorsi, viene proprio istintivo ad esempio quando si è arrabbiati».
Il recupero è inevitabilmente «culturale», dunque…
«Sì, e non è un caso che si sia sviluppata una scuola poetica di grande livello. Penso ai poeti più moderni, non più legati ai motivi del mondo contadino, come Guerra, Baldini, Galli e Pedretti, fino ad arrivare al rivoluzionario Nadiani, la cui perdita precoce è stata enorme. Rendere poetica e attuale una lingua priva di astrazioni e sinonimi è stata una vera impresa».
Com’è la lingua che si parla comunemente oggi in Romagna?
«E’ l’‘Italiano di Romagna’, per usare la felice sintesi di Valeria Miniati. Si italianizza il dialetto e mutano anche i significati delle parole. Una nostra giovane collaboratrice mi faceva notare il termine ‘sgaffato’, diffuso in rete, che dallo sgaf ‘dispari, sparigliato’ che era in romagnolo è diventato praticamente sinonimo di ‘taroccato’. Ai letterati non farà piacere, ma in fondo anche il famigerato ‘ho rimasto’ è italiano di Romagna. E’ un modo, per lo più inconsapevole, di affermare un’identità».
Spesso si pensa al dialetto come qualcosa di immutabile, però come ogni lingua in realtà evolve.
«Il romagnolo viene dal latino, che fu imposto dai romani ma poi si contaminò nell’Italia dei campanili, con mille influenze. L’economia e la società in Romagna furono ‘chiuse’ per secoli nelle piccole comunità; lo dimostra il dialetto del Borgo di Faenza che è parzialmente diverso da quello della città! La globalizzazione di oggi contamina in una direzione che è opposta alla chiusura che ha permesso al romagnolo di diventare peculiarità di questo territorio, così come la cucina e l’agricoltura. Oggi si parla la lingua contaminata ‘verso l’esterno’ delle opere di Giovanni Nadiani. La lingua ‘vive’. E per fortuna».
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Venti anni di studi e di successi. Complimenti e auguri.
Commenta news 17/02/2017 - Gigi Casadio
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