Maggiani racconta il suo ultimo libro da «naturalista domestico»

Faenza | 14 Febbraio 2017 Cultura
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Elena Nencini
Centocinquantasei paginette dedicate alla natura, rigorosamente in ordine alfabetico, Abete natalizio, Acanto, Aguas de março, Albicocca Aurora, ecc, costituiscono il nuovo libro di Maurizio Maggiani La zecca e la rosa (Feltrinelli). Sono pensieri sparsi di un naturalista domestico, come si definisce lo scrittore spezzino, oggi trapiantato a Faenza, alle pendici delle colline. Figlio di un operaio, anarchico, contadino nell’animo, Maggiani vanta premi letterari come caramelle per ogni libro scritto: uno Strega, un Campiello, uno Stresa. Ma i suoi libri rimangono magici e sanno evocare, come in questo caso, ‘finestrelle’, squarci sul mondo esterno in maniera lirica e suggestiva. Maggiani ci racconta il suo rapporto con la natura, le sue creature e con la magia delle parole.
Com’è nato questo libro, dalla struttura insolita e poetica?
«Il mio sentimento prevalente nello scrivere è una gioia infantile, ogni volta che mi metto lì, scrivo una di queste ‘finestrelle’ sul mondo. Lo faccio con gioia, quello che ha prevalso nella mia tarda età nei confronti della natura è proprio una relazione di infantile meraviglia. Sono nato in campagna negli anni ‘50, in una famiglia di contadini che avevano una relazione molto diretta e intima con la natura. I contadini non sono ecologisti, la natura incontaminata li terrorizzava: mio nonno davanti a un campo vuoto pensava: ‘Cosa ci posso piantare?’. C’è una religione delle creature nei contadini, anche oggi. Quando un contadino esce di casa la prima cosa che vede è dio. Se piove o grandina è quel tipo di dio animalesco, se c’è il sole è un dio affabile. Nonostante viva oggi in una campagna agli antipodi, vivo guardando l’alba, ma non è cambiato molto, a parte il trattore con la guida satellitare del mio vicino. Le facce di chi mi abita accanto sono le stesse facce di casa mia e le creature sono tutte quelle che vedevo da bambino. Ho un istrice che vive davanti casa, una creatura maestosa, quasi imponente, quando l’ho visto sono tornato il bambino di sette anni che vedeva un tasso. Sono tornato a percepire quella sensazione di intimità con la natura e con l’universo delle creature. Una grandissima gioia. Per questo il libro è diviso in queste finestrelle che non possono essere più lunghe di una pagina perché sono apparizioni, pensieri».
Nel libro si definisce «principe degli orti e barone dell’uva fragola, re dei fossi e granduca dei pesciolini». Ha mai aspirato ad altri titoli?
«Sono nato in un’epoca di miseria e non ho mai avuto l’impressione di vivere e di crescere in una famiglia miserabile. Mio nonno era anarchico, mio padre più moderato, io un anarchico tipo Santa Maria Goretti. Mio nonno mi diceva ‘siam tutti uguali perché siamo tutti signori’. Mia nonna, quando tornavo dalla città con i mocassini di vernice e i pantaloni a zampa di elefante e andavo a salutarla nell’orto, mi diceva “Me pari Pia dei Tolomei in su’ i malocchi”, cioè “sembri Pia dei Tolomei (citata nella Divina Commedia, nda) sopra le zolle”. Mi chiedo come faccia una contadina ad aver conosciuto Pia dei Tolomei e ad averla fatta propria tanto da immaginarla in mezzo alle zolle. Mio nonno mi ha insegnato a potare, quando ero ragazzino, un filare di vermentino, poi mi ha portato a guardarlo, perché guardava una cosa bella. Una buona potatura crea una bella pianta. Si tratta di utile bellezza e uno si sente responsabile della terra che non gli appartiene e di cui è parte. La terra è sua come è sua la moglie, e così il figlio».
In questi giorni si parla molto del fatto che i ragazzi non sanno più scrivere. Lei come è arrivato a un linguaggio così raffinato e colto?
«Non ho studiato la grammatica, è la cosa più stupida, in generale, di un sistema scolastico che avrà tanti pregi ma si porta dietro retaggi invecchiati. L’italiano è un accumulo sterminato, sterile, dannoso di regole. Regole, regole, regole prive di senso, un’eredità dal latino che non è più la nostra lingua da 2500 anni. In casa mia si parlava dialetto per cose che si potevano pensare in dialetto, in italiano per quelle che erano da pensare in italiano. La mia famiglia era terrorizzata dall’analfabetismo: mio nonno sosteneva che l’unico modo di elevarci fosse studiare. Nella biblioteca di Riccardo Maggiani c’erano L’Orlando furioso, la Storia dell’universo, i Promessi sposi, libri comprati a dispense tra fine ‘800 e i primi del ‘900. E’ importante la curiosità, ho letto tutto perché sono stato educato a leggere tutto. Mio padre mi ha insegnato a leggere per strada guardando i manifesti e le insegne. Ancora oggi leggo anche il bollettino dell’odontotecnico. Ho avuto pessimi insegnanti a scuola, lazzaroni, ma ho avuto anche due insegnanti interessanti, come quella d’italiano che si ostinava a imporci di imparare a memoria le cose:  l’avrei ammazzata, ma ancora adesso gli endecasillabi di Dante o l’Ariosto ce li ho in testa. Roba che rimane insieme ai giornali a fumetti, insieme alla lingua di mia nonna. La lingua è un gioco, mi diverto come un pazzo. Scrivere è come cantare, è un bel gioco che non finisce mai. Che gran privilegio».
Da La Spezia alle colline faentine com’è cambiato il suo orizzonte?
«Vivo sotto il giogo delle artrosi ma ho imparato a conoscere le stagioni ‘vere’, un freddo ‘marmato’ (freddo come il marmo, nda), vivo nelle pendici delle colline, dove il panorama è molto mosso, faccio più salite qui che a casa mia. Il cambiamento è fatica, disdoro, ma è anche tutta la meraviglia, lo stupore di ricominciare».
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