Un libro di Novaga sull'identità culturale della Romagna

Romagna | 24 Gennaio 2017 Cultura
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«La piadina, il vino, il dialetto, l’associazionismo, la capacità di crearsi il lavoro sul territorio, l’accoglienza, i valori familiari, l’attaccamento alla tradizione sono tutti caratteri fondanti dell’identità romagnola, un’identità decisamente più marcata della media». Vi sembrano luoghi comuni? Beh, la prima notizia è che chi parla non è un romagnolo ma un milanese, il professor Marcello Novaga, docente di Psicologia Applicata all’Università di Padova e con un curriculum non proprio comune (vedi marcellonovaga.com). La seconda notizia è che Novaga ha le «prove numeriche» di quanto la piadina, il sangiovese, l’ospitalità e la cooperazione incidano per davvero sull’identità e la cultura dei romagnoli. Le ha perché ci lavora da vent’anni, con un’équipe di studenti e ricercatori, e ha pubblicato i risultati delle sue ricerche nel prezioso volume L’identità culturale romagnola, edito dai tipi del Ponte Vecchio di Cesena e già presente nelle biblioteche universitarie di tanti Paesi, dall’Asia all’America.
«Per anni mi sono occupato della psicologia nel mondo del lavoro – spiega Novaga – e le analisi dell’Economist sulla struttura produttiva romagnola, fatta di piccole aziende con un grande attaccamento dei lavoratori, mi hanno portato ad indagare la Romagna, terra natale dei miei nonni. I miei studenti partivano dal mondo del lavoro e mi portavano dati sempre più interessanti».
Sull’identità culturale dei romagnoli?
«Sì, si tratta di una tematica che studiamo in senso scientifico e numerico, sta al crocevia tra psicologia, antropologia, storia, geografia, sociologia ed economia. Me ne sono occupato a proposito della Romagna anche in precedenti pubblicazioni per il Ponte Vecchio e gli Studi Romagnoli. Questo nuovo volume racchiude le ultime ricerche ed è un po’ il sunto di un lavoro ventennale».
Come avete proceduto?
«Attraverso interviste e test sottoposti a un migliaio di romagnoli, scelti con una campionatura precisa perché fossero rappresentativi del territorio. Ci  sono modelli matematici e statistici, strumenti e tecniche idonee per capire e misurare il sentimento dell’identità, che definiamo come la consapevolezza della propria esistenza nel tempo. Questa risulta particolarmente forte nelle comunità collinari e rivierasche della Romagna. A Bertinoro, in particolare, sono state fatte decine di ricerche che raccontano di un territorio molto poco allineato ai dettami della globalizzazione. Abbiamo scoperto che la cosa è estendibile all’intera Romagna».
Che avete diviso in cinque aree culturali.
«Sì, la collina, la pianura forlivese e riminese, il ravennate, l’area litoranea e l’imolese, che fa certamente parte della Romagna. Esiste, certo, un attaccamento all’istituzione emiliana ma c’è anche un distacco dall’identità dell’Emilia. Il 65% degli imolesi si sentono più romagnoli. Il territorio influenza molto la psicologia, abbiamo conferme numeriche sul fatto che i collinari siano mediamente più chiusi dei litoranei, con una diversa propensione alle relazioni che discende dalla storia e ha avuto importanti ricadute economiche. I romagnoli che hanno vissuto di turismo hanno lavorato anche alla riconoscibilità, e quindi all’esportabilità promozionale, della loro immagine. E’ un po’ come nel Rinascimento: l’abbellimento del territorio andò di pari passo con l’immagine che l’Italia seppe dare di sé stessa all’estero. L’identità è un vettore economico da non sottovalutare».
Ma non vale solo per i rapporti con l’esterno.
«No, infatti da questo dipende anche la scarsa emigrazione dalla Romagna e lo spopolamento delle campagne meno marcato che altrove. I romagnoli hanno dimostrato grande creatività nell’inventarsi il lavoro, sia nelle campagne che al mare, perché il turismo di sicuro non è stato calato dall’alto, è stata imprenditoria!».
Vuol dire che le tradizioni qui non si scalfiscono?
«In Romagna meno che altrove, i giovani romagnoli non rompono la catena identitaria. Si adeguano al mercato, specie quello turistico, ma a livello valoriale sono dei tradizionalisti, mentre in senso politico badano molto a loro stessi, orgogliosi di essere decentrati rispetto ai centri di potere. Le nostre indagini longitudinali, fatte cioè a 20 anni di distanza sugli stessi temi, dimostrano che l’evoluzione dei valori in Romagna non tende alla disgregazione, al contrario».
Quanto si distingue la Romagna da altri territori italiani?
«E’ certamente un caso singolare. In 38 anni ho fatto ricerche anche in Piemionte, Veneto e Lombardia. L’attaccamento identitario esiste, ma è come sbriciolato. In Romagna l’indice di significatività che abbiamo riscontrato è dell’80%, altrove scende anche al 40%. In Emilia, per dire, il dato è alto ma significativamente inferiore. La Romagna esiste perché esiste il sentimento dell’essere romagnoli, sviluppatosi poi nell’economia e nella società attraverso l’associazionismo e la cooperazione, finanche la massoneria, è la forza della Romagna. Qui è molto semplice creare gruppi di lavoro, mentre in Veneto è difficile, l’abbiamo visto in alcuni progetti universitari».
Il dialetto è un altro elemento identitario?
«Certamente, l’opera di Spallicci ha fatto emergere con chiarezza quanto la lingua sia capace di mantenere la cultura identitaria. Ad esempio una certa durezza dell’inflessione romagnola rivela una radice celtica molto forte. Il parlare in dialetto permette ai romagnoli di riconoscere se stessi e la propria storia»
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