Vin brulè, il caldo abbraccio speziato

Romagna | 16 Gennaio 2017 Le vie del gusto
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Con l’inverno e la stagione fredda la voglia di bere qualcosa di corroborante, antisettico e decongestionante, ma anche a suo modo avvolgente, appagante e socializzante è comportamento condiviso. Ci sono tante bevande, alcoliche e non, che rispondono a questa esigenza. Sul versante alcolico si passa da quelle più nobili come il brandy o il cognac a quelle più tradizionali come il punch o il bombardino. Tra le più famose ed apprezzate, e per certi versi più popolari, c’è però il vin brulè.
Una bevanda, calda e speziata, che trova origini antiche. La sua prima testimonianza ante litteram la si fa risalire al tempo dei classici ellenici e romani con il «Conditum Paradoxum». Un vino caldo, narrato dal primo gastronomo della storia Marco Gavio Apicio, che prevedeva l’aggiunta di miele, pepe, nardo, zafferano e datteri, offerto solitamente a fine pasto. Una ricetta che nel corso dei secoli è stata affinata e adeguata alle esigenze del tempo e delle materie prime presenti. Questo carismatico vino caldo aromatizzato da sempre è presente nella cultura popolare come rimedio naturale contro i malanni della stagione più fredda. Grande importanza per questa ricetta particolare e trasversale a popoli e territori la ricoprirono i monaci, grandi conoscitori di erbe e spezie, che ne affinarono la formula portandone il gusto ad assomigliare molto a quello attuale. Anche la Francia di fine ‘800 fu grande artefice della diffusione bohèmien di questo vino aromatizzato. Non a caso veniva chiamato «Vino dei poeti di strada» visto che veniva bevuto per conforto dagli artisti nelle lunghe serate invernali e per le loro pièce teatrali lungo le vie parigine. 
Oggi il vin brulè lo si beve in diverse parti del mondo. In Inghilterra viene chiamato mulled wine, in Francia vin chaud, in Germania gluhwein e nei Paesi scandinavi glogg. Non solo vino rosso viene utilizzato. Nel Nord Europa e nell’Italia settentrionale può essere usato anche vino bianco.
La ricetta codificata e più in uso è quella che prevede un vino rosso corposo. Le spezie invece variano ma la versione più conosciuta vede la presenza di cannella, chiodi di garofano, noce moscata, anice stellato, a cui si aggiungono mele, limone, arancia e mandarino. La ricetta ufficiale prevede un litro di vino rosso, due stecche di cannella, otto chiodi di garofano, la scorza di un limone e di un’arancia, duecento grammi di zucchero, mezza noce moscata e un anice stellato. Da qui le interpretazioni prendono strade diverse. C’è chi dice di portare il miscuglio ad ebollizione e chi invece consiglia di non farlo. Modus operandi che però non cambia la sostanza: il vin brulè va bevuto sempre molto caldo.
In Romagna acquista anche un valore molto simbolico e rituale. «Questa bevanda - ricorda il gastronomo Graziano Pozzetto - era per lo più di origine popolare. Veniva consumato soprattutto dai marinai per riscaldare il budellame e la gola senza dimenticare la sua proprietà antisettica. In collina invece accompagnava spesso l’uccisione del maiale. Era bevanda di rito e convivialità. Ai nostri progenitori, che usavano vino scadente, piaceva molto inserire speziature forti. Era segno di virilità».
A Faenza, infine, la sera del 5 gennaio, si organizza la Nott de bisò. Un nome ambivalente che unisce tradizione popolare e storia. Bisò, infatti, viene fatto derivare dal dialetto «bì sò! (bevete, su!)» anche se la vera origine dovrebbe essere fatta risalire al tedesco Bischoff parola che significa «vino rosso caldo» ma anche «vescovo» (bishop in inglese) proprio a causa del colore che richiama l’abito porporato. Questa interpretazione del brulè in chiave manfreda viene servito all’interno di tazze di ceramica create ad hoc che prendono il nome di «Gotti».

Riccardo Isola - foto Raffaele Tassinari

 
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