Si festeggia il 17 gennaio Sant'Antonio, protettore degli animali e dei contadini

17 Gennaio 2017 Cultura
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Federico Savini
«La divozione e la fede che i contadini hanno a S.Antonio è singolarissima: ne si può negare che dessa non ecceda a quella di un qualunque altro Santo loro avvocato o protettore». Lo scriveva circa 200 anni fa Michele Placucci, da Forlì, sul mai troppo celebrato Usi e pregiudizj de’ contadini della Romagna. Chissà cosa penserebbe Placucci dei romagnoli d’oggi, che in larga parte proprio ignorano il culto di un santo del quale si sono abbandonate le festività e le ritualità, ma che a tutti gli effetti è stato per secoli il «Nume tutelare della famiglia contadina». E’ una definizione di Eraldo Baldini, indefesso indagatore del mondo contadino, che di Sant’Antonio abate ha scritto in tanti voluti, come La sacra tavola: il cibo e il convivio nella cultura popolare romagnola e i successivi dedicati ai riti del cibo in Romagna. E già un remoto manoscritto riminese di Girolamo Cirelli afferma nel 1694 che il santo che si venera il 17 gennaio fosse il «particolare protettore» dei contadini.
Dei contadini e degli animali, primo fra tutti il maiale; e sì che il 17 gennaio cade proprio in periodo di pcareja, cioè l’uccisione del suino, da praticarsi nel momento più freddo dell’anno per agevolare la conservazione delle carni. Ma è legato al maiale anche un miracolo del santo, divenuto nella cultura popolare un metodo per curare proprio il «fuoco di Sant’Antonio»: i frati antoniani applicavano infatti del lardo di maiale sulla pelle dei malati.
Il culto per il protettore degli animali riuscì quasi a far diventare «santo» l’animale del quale «non si butta via viene», gastronomicamente parlando. Al punto che nel medioevo potevano circolare nelle città solamente i maiali con la campanella al collo: si trattava dei porci di S.Antonio, donati da piccoli ai monasteri e macellati per i bisognosi e i poveri.
Naturalmente questo stretto rapporto con il maiale non ha mancato di solleticare la verve umoristica dei romagnoli, ad esempio nel detto Sânt Antõni u s’inamuré int un põrc, che si usa per giustificare gusti e predilezioni molto «anticonformisti», diciamo così. E quando capitava di macellare una femmina di maiale gravida, Gianni Quandamatteo ricorda - in uno scritto degli anni ’70 - che si sprecavano commenti come U n’s’po’ fè un tort a Sant Antogne.
Sant’Antonio è poi anche «del fuoco» secondo la tradizione, tanto che viene considerato protettore dei ceramisti e naturalmente è celebrato a Faenza per questo. Chissà che dal richiamo al fuoco non dipenda anche la credenza secondo la quale il 17 gennaio sarebbe un giorno già molto luminoso, con un’ora e un quarto in più rispetto al solstizio d’inverno: Par Sânt Antõni un’ora bõna. Un errore secolare, che Baldini e Bellosi nel loro Calendario datano ad epoca pre-gregoriana: alla data del 17 gennaio, infatti, si gode di appena una mezz’ora di sole in più rispetto al 21 dicembre.
Il santo era poi talmente rispettato che le donne evitavano di filare nel giorno a lui dedicato: Se te t’an um vu unurê, no m’spudacê, si immaginava che dicesse il santo a proposito della propria barba rivolgendosi direttamente alle donne che l’avrebbero potuta filare; donne che, in genere, non filavano nemmeno per il giorno dei morti e l’Epifania, periodi legati al culto dei defunti.
Sempre Baldini e Bellosi riportano una leggenda di Castel Bolognese, secondo la quale il 17 gennaio un bovaro volle sentir parlare i suoi animali - come accade nella Pasquella, ne scrivevamo giusto un anno fa -, rimanendone poi impaurito a morte.
Proprio nell’area castellana molte domeniche invernali erano di festa in onore del santo e infatti la concomitanza del 17 gennaio con la pcareja rendeva questa ricorrenza per lo più un giorno di festa, tanto che si parlava persino di «Nozze del maiale» e anticamente si banchettava proprio in onore di S.Antonio.
L’ultimo residuo gastronomico, ma più che altro rituale, che ancora oggi s’incontra facilmente in Romagna sono i panini di S.Antonio, diffusi anche in altre regioni e legati probabilmente a un miracolo accaduto a Padova poco dopo la morte del santo, che una volta invocato resuscitò un bambino annegato dopo la promessa, fatta dalla madre, di dare ai poveri tanto frumento quanto pesava il suo figlioletto. Da allora quello legato al pane dei poveri (che spesso viene elargito anche agli animali) è un rituale che si continua a tramandare. Probabilmente l’ultimo a cui i romagnoli under 40 abbiano assistito.
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