E' uscito il nuovo libro di Nadiani, una sorta di Zibaldone del suo pensiero

Faenza | 16 Maggio 2016 Cultura
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Federico Savini

«Perché buttare soldi in libri di estranei, quando sia ha a disposizione la narrativa-fai da te di Facebook? Del resto, nei libri degli altri si cercava sempre e solo il proprio ombelico: ora l’abbiamo trovato». Se lo chiede provocatoriamente in un brevissimo e salace capitolo del suo La pipa di Tucholsky (Hb editore) lo scrittore, traduttore e saggista Giovanni Nadiani. E questa volta Nadiani ha veramente dato fondo al suo proverbiale eclettismo, radunando in 280 densissime pagine scritti vari – già pubblicati e non – dell’ultimo biennio. Ci si trova dentro critica letteraria più o meno di fantasia, racconti brevissimi, addirittura pagine al caffè «da sorbire senza zucchero», come del resto la vita, saggi autoanalitici sulla narrazione (e il bisogno della), passaggi filosofici (ad esempio sul Cristianesimo come fatto umoristico), poesie in spagnolo, riflessioni sulle ricadute dell’anglofonia nella vita di tutti, o quasi tutti, i giorni, dialoghi che rivelano le prospettive dell’amore a seconda del sesso, appunti sulle discutibili amministrazioni della cosa pubblica e così via. Dopo Ridente Town. Scritture istantanee, un altro «Brogliaccio a vanvera» - come sottotitola il nostro – o «pasticcio in salsa mista» - come lo definisce nell’introduzione, compiacendosi anche un po’ del ruolo di scribacchino di campagna – o ancora «Zambeldino» - per dirla con il post-fattore Marco Mazzoleni, richiamando il rospo romagnolo Zambeld – che vale anche come riflessione sullo stato della scrittura nell’epoca dei social network. «Nel mezzo degli articoli e delle battute umoristiche – spiega Nadiani – si annidano tante riflessioni sul mondo della comunicazione, sulla frammentazione che ogni regna sovrana, facendoci saltare da una chat all’altra».

Ma ci sono anche capitoli molto arzigogolati. E’ voluto?

«Diciamo che si fatica sempre più a seguire discorsi logici, anche a livello letterario, ma credo ci si debba disintossicare. La letteratura è tempo, in definitiva, e io invito provocatoriamente il lettore a usare questo tempo per entrare nelle parole, senza limitarsi alla superficie che usiamo di solito. Oggi si parla per slogan ma un periodare complesso restituisce un’immagine del mondo più veritiera».

Siamo condannati ai 140 caratteri?

«Non sono pessimista, studio la scrittura elettronica dagli anni ’90 e forse a breve torneremo pienamente all’oralità, con i nuovi strumenti tecnologici. Viviamo un passaggio storico anche sul fronte educativo, le nuove generazioni crescono su nuovi formati, se è vero che quasi nessun ragazzo tra i 10 e i 17 anni legge anche solo un libro all’anno. E’ un fenomeno da monitorare, spero solo che usciremo dalla logica ombelicale dei social dove “non c’è nulla di più importante del mio gatto”».

Il titolo cita un elzevirista come Tucholsky. Esiste ancora l’autorevolezza? Persone capaci di scuotere le coscienze?

«Quelle ci sono eccome, ma bisogna prendersi il tempo per ascoltarle. I miei studenti riescono ancora a spegnere il cellulare per due ore e ascoltare la voce dei poeti tedeschi. Non sono pessimista».

La scrittura, specie in un caso del genere, è terapeutica?

«Sono sempre stato scettico su questo, perché può facilmente anche diventare autistica. Voglio dire che quando scriviamo ci rivolgiamo sempre a un lettore, per lo meno virtuale, facciamo narrazione anche quando scriviamo un diario. Noi “siamo” narrazione, narriamo noi stessi, come ci vediamo e come vorremmo ci vedessero. Non esisteremmo senza, e questo bisogno di comunicare sì, può essere terapeutico».

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